Welfare, employability, dinamicità per la gestione dei talenti
Con Amelia Parente, responsabile delle risorse umane, dell’organizzazione e della comunicazione di Roche, abbiamo parlato di giovani talenti e della grande trasformazione in atto nel mondo del lavoro, che ha ricevuto una spinta ulteriore dal Covid. «Smart Working? Alla situazione pre-pandemica non torneremo, ma si sta affrontando il tema in maniera superficiale e talvolta ideologica».
Trova fastidiosi gli anglicismi da hit parade, a cui preferisce la concretezza della filosofia imprenditoriale. Napoletana, laureata alla Bocconi in economia aziendale con una tesi che anticipava le questioni di genere nel mercato del lavoro, Amelia Parente ha una lunga esperienza nell’ambito Hr di aziende del Pharma: Pfizer («una vera e proprio scuola nel mondo del Pharma»), poi Gsk e Amgen, tra incarichi nazionali e internazionali fino all’arrivo in Roche, dove attualmente è Hr, Communications & Transformation Director e membro del board. Un’esperienza che, a distanza di quattro anni, definisce «una sfida meravigliosa». Amelia Parente sarà tra i protagonisti dell’appuntamento Officina Risorse Umane, in calendario a Venezia il 23 e il 24 ottobre 2021. Con lei abbiamo approfondito le trasformazioni in atto nel mondo del lavoro, il tema del welfare come strumento di attrazione dei talenti, le sfide future degli Hr.
Quali trasformazioni in atto? Quali sfide per chi si occupa di risorse umane?
«Da tempo assisto a una rivoluzione paradigmatica nel mondo del lavoro. Oggi, a un colloquio di lavoro si presenta una persona nella sua interità, di tutte le dimensioni professionali, esistenziali, sociali e familiari. Una persona intera, appunto. Quel che ci viene chiesto non è più solo stabilità finanziaria o prospettive di carriera, ma flessibilità, speranza, apprendimento continuo, welfare».
Questo impone dei cambiamenti nell’organizzazione aziendale. Quanto ha influito il Covid?
«La pandemia, inevitabilmente, ha fatto da spinta e accelerazione, ma le prime avvisaglie di queste nuove necessità erano già sorte con l’avvento della rivoluzione digitale. Domande come “Dove erogo la prestazione?”, “Come interagisco con gli altri?”, “Come faccio business?”, erano nell’aria, aumentando quell’intolleranza verso una gestione del lavoro definita e statica. Certo, accelerare così in due anni, e con scarso preavviso, ci ha posto davanti a questa sfida senza esserne del tutto pronti».
Anche il ruolo delle Hr è cambiato?
«Abbiamo dovuto far evolvere rapidamente le nostre competenze e i nostri modelli, adottando una mentalità che ci aprisse verso un nuovo modo di vedere il mondo. Tutt’oggi il nostro scopo è trovare prospettive inedite, che è poi la principale missione per le risorse umane».
Come può una realtà aziendale cambiare sé stessa e collaborare attivamente con la società?
«Le faccio un esempio che riguarda da vicino la mia azienda. Proprio durante la fase più acuta dell’emergenza, quella del primo lockdown, abbiamo progettato e presentato alle istituzioni “Roche si fa in quattro”, un progetto di partnership attraverso il quale Roche ha messo a disposizione del sistema tutte le proprie risorse, sulla base dell’ascolto attento dei bisogni della società: abbiamo distribuito farmaci, test diagnostici, servizi al paziente, dispositivi di protezione individuali, contenuti didattici per i giovani costretti alla stanzialità. Oltre 250 persone di Roche hanno partecipato alla più grande operazione di volontariato di competenze d’impresa: per due mesi le nostre persone hanno sostenuto da remoto il numero verde 1500 voluto dal ministro della Salute, Roberto Speranza, per rispondere a dubbi e preoccupazioni dei cittadini italiani. Un’esperienza indimenticabile che è stata anche un valore aggiunto per la nostra realtà, facendo molta più formazione sulla leadership aziendale di tante slide e presentazioni».
L’approccio allo smart working è stato quindi accelerato, ma anche utile. Può sopravvivere fuori dall’emergenza?
«Sicuramente è un’opportunità e certamente è una sfida per tutti coloro che si occupano di impresa, in particolare gli organizzativi. L’idea di impresa nasce legata a concetti di unicità di tempo e di luogo, alla co-abitazione di persone la cui attività viene coordinata dall’impresa medesima; la rivoluzione digitale e la sperimentazione su scala massiva di scioglimento di questi vincoli ci hanno imposto di interrogarci su forme diverse di organizzazione. Esercizio nient’affatto banale, dacché le dimensioni da tenere in considerazioni sono numerose. Lo sforzo di innovazione organizzativa richiede competenze specialistiche come quella dei progettisti, gli “architetti” dell’organizzazione, competenze e saperi abbastanza rari su cui nel tempo le aziende hanno disinvestito. Non dimentichiamo che il coordinamento tra le persone, l’alimentazione del sentimento di appartenenza, l’innovazione e – non da ultimo – il bisogno e il desiderio delle persone di appartenere a diverse comunità sociali sono dimensioni rilevanti sia per l’impresa sia per l’individuo. Trovare un equilibrio nuovo non sarà semplice: ho l’impressione che la soluzione perfetta non sia stata ancora elaborata, che forse non esista e che ci sia ancora strada da fare per tentativi ed errori per conquistare un nuovo equilibrio.
Serve una riorganizzazione anche legislativa?
«Da questo punto di vista siamo ottocenteschi, tanto a livello normativo quanto giuridico. In Roche gestiamo 1200 dipendenti, coprendo cinque generazioni, dal momento che gli ultimi assunti di agosto appartengono alla Generazione Z, e le esigenze naturalmente cambiano. Esistono poi ruoli che si prestano al lavoro ibrido e altri per cui esso sarebbe impraticabile. Certamente, alla situazione pre-pandemica non torneremo, ma per affrontare questa rivoluzione serve serietà, evitando la superficialità, sovente solo ideologica, che al momento mi sembra aleggiare sul dibattito: non basta dire tre giorni in ufficio e due a casa…».
Se potesse scegliere, quale sarebbe la prima cosa da fare per avere una discussione e un confronto serio e approfondito sulle trasformazioni in atto nel lavoro?
«Sgombrare il campo dalla componente ideologica. Quella che vorrebbe far sedere dalla parte dei manager retrivi e obsoleti coloro che nutrono dubbi sulla scalabilità tout court dello smart working e dalla parte degli innovatori al passo coi tempi coloro che immaginano un mondo fatto di totale flessibilità e di scelte solo individuali. Ma anche il contrario, la prospettiva in cui ci si ostina a sperare in uno status quo ante che non è né praticabile né desiderabile. Alimenterei il dibattito, metterei insieme esperti di organizzazione aziendale con sociologi, psicologi del lavoro e delle comunità, manager d’impresa. E ascolterei – tanto – le persone. La diversità sarà un elemento da valorizzare moltissimo
A proposito di questo, legandoci anche al suo argomento di tesi, come valorizzate le competenze Stem delle dipendenti?
«Con la pratica, perché le assumiamo e le promuoviamo. Nell’area commerciale, in quattro anni, la presenza femminile è passata dal 23 al 50%. Nei ruoli dirigenziali il pareggio è ormai raggiunto. I permessi genitoriali, disponibili quindi anche per i papà, hanno iniziato a far parte delle pratiche di Roche già due anni prima delle indicazioni europee. Ma il sostegno c’è anche con l’organizzazione di attività estive per i figli, con programmi dedicati specificamente alle disabilità, o con la flessibilità oraria. Il ruolo dell’Hr, in tutto questo, è stato importante, prima di tutto nel riconoscimento di visioni e prospettive diverse proprie di ogni personalità. Il welfare è oggi fondamentale per attirare e trattenere i talenti».
Quali caratteristiche deve avere oggi un giovane laureato, un “talento”, che si presenta per un colloquio di lavoro?
«Innanzitutto, serve saper individuare il talento, e quello che personalmente osservo in un colloquio è l’anticonformismo del pensiero. La nostra realtà offre la possibilità di evolvere e di sperimentare, anche assumendosi dei rischi. Quel che cerchiamo sono persone curiose, con una mindset di crescita e sviluppo, disposte a mettersi in discussione e desiderose di esprimersi anche al di fuori dei confini organizzativi del proprio ruolo».
E cosa offrite al “giovane talento” per farlo rimanere con voi?
«Un welfare all’avanguardia, cioè un’attenzione specifica alle esigenze del singolo lavoratore, in un contesto dinamico e stimolante. L’aspetto più valido che possiamo mettere sul tavolo, a mio avviso, è proprio l’employability, la possibilità di sperimentare, imparare e accrescere il proprio patrimonio di competenze e saperi».