Vecchione, Tack TMI: «Siamo nel BANI world, il VUCA è sorpassato»
«Il contesto è fragile e la resilienza non basta, occorre una leadership che si concentri tanto sul business quanto sulle persone». Irene Vecchione, amministratore Delegato di Tack TMI Italy, riflette sulle competenze manageriali necessarie a creare ingaggio e fedeltà dei dipendenti, facilitando la retention.
Carenza di talenti, difficoltà ad ingaggiare le persone, dimissioni sempre più frequenti, quasi sempre a causa del rapporto con i propri capi. Irene Vecchione, amministratore Delegato di Tack TMI Italy – società presente in oltre 55 Paesi, virtualmente e digitalmente – sarà al Salone della formazione in programma a Milano il 27 e 28 settembre, dove si riuniranno i maggiori esperti di formazione aziendale. E, intanto, riflette con HR Link sul contesto attuale e sulle direzioni che è necessario intraprendere affinché si interrompa questo circolo vizioso e si possa dare nuova linfa alle organizzazioni.
Dottoressa Vecchione, dal VUCA world ad oggi, cosa è successo?
«Sentivamo parlare di VUCA world e ne avvertivamo il rischio. Poi è arrivata la pandemia e abbiamo fatto effettivamente esperienza di volatilità, incertezza, complessità e ambiguità. Oggi siamo ancora oltre: siamo nel BANI world, un mondo fragile, che genera ansia, non lineare e caratterizzato da fenomeni a volte incomprensibili (brittle, anxious, non-linear, incomprehensible, ndr). Ci troviamo in un contesto che, come accade per gli oggetti fragili, è apparentemente stabile, ma può rompersi inaspettatamente. Rispetto alla precarietà del VUCA world, l’instabilità attuale è caratterizzata da una forte componente emotiva, quella dettata dall’ansia, che si sperimenta tanto al lavoro che a casa. Gli psicoterapeuti continuano a riferire di una condizione di ansia aumentata nel post pandemia, a causa delle situazioni che le persone si sono trovate ad affrontare. L’incertezza genera ansia e l’ansia, a sua volta, diventa un problema reale. È molto pesante in azienda, perché le persone ansiose si fanno sopraffare, non sono capaci di prendere decisioni, sono bloccate dalla paura: capita anche ai leader. A questa condizione, si aggiunge la non linearità del contesto, che si somma a sua volta alla complessità: ciò fa sì che non sempre riusciamo a scorgere un collegamento tra causa ed effetto. Da qui sorge l’incomprensibilità verso ciò che accade».
Difficile, quindi, fare previsioni…
«Sì, anche con grandi sforzi a volte gli effetti possono essere nulli. Così come piccole azioni possono talvolta avere impatti enormi. Inoltre, ci troviamo tutti immersi in una enorme quantità di informazioni, di notizie, di fake news, che portano ulteriore confusione e quindi instabilità e difficoltà di comprensione».
Come reagire?
«Durante la pandemia abbiamo sentito molto parlare di resilienza, ma si sta superando anche questo atteggiamento, che ci è parso in molti contesti risolutivo. Mi piace usare una metafora che mutuo dal tennis: quando arriva la pallina sulla racchetta, questa subisce un impatto, un trauma; le corde della racchetta si deformano ma la racchetta è resiliente, perché torna com’era prima dell’impatto. Ecco: oggi questo non basta più. Perché, oltre ad attutire il colpo, non si ha una risposta “positiva”. Occorre rilanciare e per farlo, come nel tennis, non è necessaria la forza, ma bisogna sapere come buttare la pallina dall’altra parte, usando i movimenti corretti, una tecnicalità. Questa riflessione per me vale anche se si ragiona sugli stili di leadership».
Basta con la leadership autoritaria, che usa la forza, insomma…
«Oggi è universalmente noto che la leadership autoritaria non è efficace perché il mondo è sostanzialmente cambiato. In un contesto di non linearità lo stile autoritario non funziona. Esistono innumerevoli teorie e definizioni sulla leadership. Ma tre “fanno più tendenza” e sono tutte accomunate dal fattore umano: leadership gentile, leadership plurale e leadership intent based. Osservando bene questi stili, si nota che sono tutti caratterizzati da propensione all’accoglienza e all’accompagnamento, caratteristiche proprie anche della leadership plurale: la sostanza è molto simile, perché, per guidare insieme, occorre ascoltare.
David Marquez (Senior cyber security manager presso la US Army Medical Research and Development Command) ha formulato la teoria della leadership intent based, riflettendo sulla sua esperienza, molto significativa. Di fatto, si è trovato a operare in un sottomarino americano, di cui non conosceva nulla, perché proveniva da un’altra esperienza. Avrebbe dovuto guidare l’equipaggio e raggiungere gli obiettivi previsti entro sei mesi, benché fosse necessario un anno per poterlo fare davvero. Ha dovuto quindi compiere una vera e propria rivoluzione interna: l’equipaggio era abituato a eseguire e ricevere ordini, mentre lui ha coinvolto tutti i colleghi, abituandoli a decidere insieme. Da cosa è partito? Dall’ascolto delle persone, ovviamente. Che non sono più considerate mere “risorse umane”, ma fonte per lo sviluppo di ogni organizzazione, sia essa privata o pubblica».
Le persone che danno le dimissioni sono più giovani o meno giovani?
«La casistica è ampia e le variabili sono tante. Le persone più avanti con gli anni si pongono maggiormente il problema di cambiare, anche perché temono di avere minori opportunità. Sui giovani la tendenza è molto avvertita. In ogni caso, in generale, le persone sono molto meno disposte e disponibili rispetto a prima ad accettare dei contesti ostili; ancora di più una leadership tossica».
Secondo lei è perché si vogliono anche riappropriare di un equilibrio migliore tra vita lavorativa e vita privata? È evidente che una leadership tossica incide molto sulla vita delle persone…
«Certamente. Credo che tutti coloro che si trovano a guidare un team di lavoro più o meno ampio debbano fare uno switch, un cambio di approccio, ed essere consapevoli del fatto che il loro ruolo è al 50% business oriented e 50% people oriented. Il profitto non è l’unico obiettivo. Ciò che rende il leader una persona di successo è la capacità di raggiungere gli obiettivi supportando le persone del suo team, guidandole, ispirandole verso un traguardo comune che deve essere trasparente, chiaro, comunicato in maniera adeguata, coerente con la visione e con la cultura aziendale. Con un approccio human centric si raggiungono più velocemente gli obiettivi aziendali: questo è il passaggio mentale da fare. Rendersi conto che le persone scontente lavorano peggio».
Si parla tanto anche della felicità sul posto di lavoro, oggi…
«Io preferisco parlare di soddisfazione, di persone contente del proprio contesto lavorativo. La leadership deve muoversi in questa direzione e diventare consapevole che avere dipendenti scontenti è controproducente. Inutile, quindi, irrigidirsi, su modelli che non portano sostanzialmente al raggiungimento degli obiettivi aziendali. Occorre introdurre concetti come flessibilità e adattabilità; l’agilità di pensiero è anche agilità di execution e di organizzazione. Questo è un punto cruciale per il successo dell’azienda e ovviamente delle persone che ci lavorano».
Come si inserisce in questo contesto il controllo?
«Se n’è parlato tanto nel passaggio dal lavoro in presenza al lavoro in remoto. Se crediamo di poter passare al modello da remoto mantenendo il controllo precedente, questo non funzionerà. Le persone che lavorano in remoto non possono essere controllate. Ma poi, qual è l’utilità di farlo e come le si controlla? Controllando gli accessi, riempendole di riunioni? Tutto questo genera stress e quindi inefficienza. Il ‘vecchio’ concetto di controllo cozza con il nuovo modello organizzativo, con le moderne teorie sulla leadership».
Il nuovo modello tuttavia richiede preparazione…
«Occorre accertarsi che le persone siano in grado di prendere anche decisioni in autonomia».
E che siano predisposte, ovvero che vogliano farlo?
«Certo. Ma il nuovo leader deve diventare un coach, deve saper guidare, accompagnare e supportare le persone in una modalità nuova. Il leader deve imparare a fare domande alle proprie persone, non a dare risposte, e deve prendere le decisioni insieme alle persone che lavorano con lui. Tornando al racconto del capitano del sottomarino, ciò che è accaduto è stato un passaggio cruciale: da 135 persone che eseguivano si è passati a 136 persone che decidono, naturalmente ognuno nel proprio ambito di azione. Poi, se non tutti hanno l’attitudine a farlo, se non tutti vogliono prendersi la responsabilità, il leader dovrà fare in modo che la persona si senta anche confidente nel potersi appoggiare. Il leader lo aiuterà a prendere una decisione che gli farà acquistare fiducia nella propria capacità di assumere decisioni».
Questa è la sfida della retention?
«Se i leader riescono a compiere questa trasformazione, le persone non avranno più voglia di andarsene. Sempre se sono allineate con la vision dell’azienda. Recentemente abbiamo condotto un’analisi di clima nella quale abbiamo chiesto quanto le persone ritenevano che il lavoro impattasse sulla vita altrui. La risposta è stata: per il 98%. Io credo che questo aspetto sia molto importante, insieme certamente a quello relativo al rewarding. La gratificazione non solo economica è fondamentale. E c’è anche chi preferisce guadagnare qualcosa di meno, ma recarsi a lavorare contento. È importante, poi, prestare attenzione ai ruoli che talvolta vengono disegnati ad hoc. Ci si può accorgere col tempo che una persona che non performa bene in un ruolo, se spostata in un altro lavora benissimo. Del resto, con il passare del tempo accade anche che si avverta la necessità fisiologica di cambiare. E allora offrire nuovi stimoli è importante».