Social network e lavoro: una relazione molto delicata
Sono strumenti di maneggiare con cura, non solo perché fonte di distrazione. Chat e post possono assumere valore probatorio in Tribunale, anche se di natura “privata”. Nascono esperienze “smartphone free” condivise tra imprese e dipendenti: meno assenze e più soddisfazione
Ci sono startup che stanno sviluppando algoritmi in grado di tracciare profili professionali elaborando le informazioni in rete e sui social, quelle stesse a cui attingono head hunter e recruiter, e ci sono posti di lavoro che possono essere messi a rischio proprio dai social. Un loro utilizzo poco accorto può costare caro. Poi c’è tutto il tema delle continue notifiche e della distrazione generata da un flusso costante di informazioni. La questione social network sul lavoro non è risolta ed è molto delicata.
Per stare sul sicuro bisogna attenersi alla massima “pubblica o scrivi solo ciò che diresti anche di persona”; la segretezza non esiste. Infatti ai fini processuali non c’è nessuna differenza tra ciò che viene scritto in un profilo pubblico e ciò che viene scritto in un profilo privato. Unica differenza è ai fini della determinazione del danno provocato: il profilo pubblico, essendo teoricamente visibile da tutti, ha le caratteristiche per produrre un grave danno d’immagine e quindi risarcimenti più elevati per il danneggiato o il diffamato.
Anche uno sfogo inviato via whatsapp ai colleghi di lavoro può generare provvedimenti disciplinari, se dannoso per l’impresa.
Diverse sentenze (raccolte in questo articolo del Sole 24 Ore) hanno stabilito che i messaggi whatsapp sono prove documentali che possono essere prodotte anche se il datore di lavoro non è tra i destinatari. La giurisprudenza è in evoluzione, ma il messaggio breve, se contiene indicazioni di orario e ordini di servizio, può essere anche impugnato dal dipendente per dimostrare l’esistenza della subordinazione. Addirittura la doppia spunta blu è stata considerata da un Tribunale come notifica di avvenuta consegna di un certificato (ma si tratta di una funzione che ogni singolo può disattivare a proprio piacimento).
Il tema centrale della relazione lavoro-social network non è solo quello giuridico, è soprattutto quello relativo al concetto di “assenteismo virtuale”: essere al lavoro, ma farsi i fatti propri online (l’altra faccia del cosiddetto diritto alla disconnessione).
Ci sono contesti lavorativi in cui è difficile separare ciò che è lavoro e ciò che è uso personale della rete, ma ci sono altri ambiti in cui la separazione è netta. La questione è seria, vista la quantità di ore che trascorriamo online (una media di circa 2 ore e mezza al giorno secondo Audiweb), ma interventi drastici di limitazione sono meno efficaci di un tempo, visto che basta il proprio smartphone per accedere a tutto. Le migliori esperienze sono quelle di autoregolamentazione e autodisciplina: un caso eccellente è quello di Jobroller, azienda con sede a Straubing in Baveria, che ha rivoluzionato la vita professionale dei suoi dipendenti in questo modo: due turni da 6 ore lavorative filate, dalle 8 alle 14 o dalle 11 alle 17, pausa pranzo eliminata a favore di un break veloce, e nessuno smartphone consentito durante l’orario lavorativo. Il risultato? Sono tutti più felici, afferma l’amministratore delegato Guenter Dillig, sono diminuite le assenze per malattia e gli errori.