Smart working in numeri: ecco il test dell’emergenza sanitaria
I lavoratori da remoto sono passati dai 570 mila del pre-coronavirus agli oltre otto milioni di marzo
A fine marzo erano otto milioni e 200 mila le persone coinvolte nello smart working, un numero enorme se confrontato con quello del pre-emergenza coronavirus, quando a utilizzare questa modalità di lavoro era solo il 2% dei dipendenti, ovvero 570 mila. Il trend è stato chiaro fin da subito, non appena si è compreso che chiunque potesse farlo avrebbe dovuto lavorare da remoto, per tutelare se stesso e la comunità intera.
Questa situazione ha impattato con forza sulle organizzazioni aziendali e ai manager è toccato il compito di gestire una situazione del tutto nuova, che alcune ricerche hanno già tentato di fotografare, restituendo dati e caratteristiche del fenomeno.
I numeri
Dando un’occhiata ai numeri pubblicati dalla stampa (indagine Dataroom Corriere insieme a Politecnico di Milano), aziende come Eni sono passate dai 4.500 smart worker ai 15.500 di metà marzo; Intesa San Paolo ha incrementato dai 17.250 ai 22.100, Unicredit da 9 mila a 16 mila, la Regione Lombardia da 391 unità a 1.337 e la Regione Emilia-Romagna da 426 a 2.326, per fare alcuni esempi. In pochi giorni, insomma, nel nostro Paese è avvenuto ciò che si presumeva potesse accadere in almeno due anni, come ha spiegato bene a Hr-Link Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio smart working del Politecnico di Milano.
Gli effetti dello smart working
Certo è che – quando l’emergenza sarà un brutto ricordo – milioni di dipendenti costretti a lavorare da casa avranno sviluppato un’esperienza diretta dello smart working. Con quali risultati?
Un esperimento randomizzato condotto da Bocconi, Bicocca e Centro Dondena prima di COVID-19 ha concluso che la flessibilità garantita dal lavoro agile aumenta la produttività dei lavoratori e migliora il benessere e il work-life balance. Le autrici dello studio hanno diviso 310 impiegati di una multiutility italiana in due gruppi: al 65% di loro è stato concesso lo smart working un giorno la settimana per nove mesi, mentre il 35% ha continuato a lavorare come al solito. La produttività, il benessere e l’equilibrio tra lavoro e vita privata dei due gruppi sono stati monitorati durante tutta la sperimentazione, con risultati interessanti: in nove mesi, i lavoratori in smart working hanno utilizzato in media 5 giorni di congedo in meno rispetto ai lavoratori a cui non era stata concessa flessibilità, hanno riportato l’8% in più di capacità di rimanere concentrati e il 12% in meno di sensazioni di stress, e sono risultati l’8% più soddisfatti della propria vita sociale.
Il punto di vista dei manager
Già all’inizio di marzo, prima del lockdown, Manageritalia – Fondazione nazionale dei dirigenti, quadri e professional del commercio, trasporti, turismo, servizi, terziario avanzato – rilevava l’effetto dirompente dell’emergenza sui propri associati, che prima di altri ne avevano compreso le implicazioni, adottando reazioni immediate e misure nuove, quali ad esempio la cancellazione dei viaggi di lavoro (provvedimento applicato fin da inizio marzo dall’84% delle aziende) e delle riunioni fisiche, o l’adozione dello smart working.
E se è vero che non in tutti casi l’adozione del lavoro agile è stata positiva, molti manager (79%) hanno intravisto la possibilità di trasformare la misura temporanea in qualcosa di più strutturato e consolidato: l’opportunità da cogliere è quella di puntare in futuro a un vero smart working – si legge nel rapporto – prevedendo forti cambiamenti organizzativi che non sempre è possibile attuare nell’emergenza. In tema di lavoro flessibile, i manager ritengono che – post Covid-19 – una maggiore flessibilità sul piano normativo potrebbe incentivare il lavoro a distanza (85%), portando vantaggi ai lavoratori (87%) e alla produttività aziendale (69%).
Dal punto di vista del fatturato, tuttavia, già un mese fa il 38% degli intervistati ipotizzava un calo del 5-10%, il 23% del 15-20%, il 14% addirittura oltre il 30%. Elevatissima anche la preoccupazione per l’economia italiana, ritenuta dall’86% molto negativa, peggio di quella europea e di quella globale.
Per fronteggiare questa condizione, i manager prevedono di adottare soprattutto misure a sostegno delle vendite (46%) e di riconsiderazione della strategia, “con revisione di alcuni aspetti della catena del valore (36%), della logistica (26%) e anche solo momentaneamente del modello di business (25%) e dei mercati su cui puntare (13%, segmenti di mercato e paesi meno toccati)”. Infine, il 72% dei manager auspica un dialogo col Governo teso a definire “misure eccezionali per favorire la ripresa dell’attività”.