Skills mismatch: con la pandemia emerge con forza il gap delle competenze
Secondo uno studio di Boston Consulting Group un lavoratore su 3 è sottoqualificato o sovraqualificato, un dato che ha impatti consistenti in termini di mancato prodotto interno lordo.
Un lavoratore su tre ha problemi di skill gap (carenza di competenze) e skill mismatch (competenze non allineate con le necessità del mercato) e questo gap si ripercuote pesantemente sull’economia dei paesi Ocse.
Secondo uno studio Boston Consulting Group intitolato “Alleviating the Heavy Toll of the Global Skills Mismatch”, nel 2018 lo skill mismatch valeva 8 mila miliardi di dollari di Pil mancato ogni anno, equivalenti al 6%, e si potrebbe arrivare a sfiorare l’11% del Pil da qui al 2025, pari a 18.000 miliardi di dollari.
Ciò che accade è che più aumenta lo skills mismatch, peggiore è la prestazione di un paese. In questa cornice la pandemia ha creato un impatto notevole, perché sono mutate molto velocemente le modalità di lavoro e non sempre le competenze erano già sviluppate. Ma, perché questa mancanza non si riversi sul Pil, è necessario intervenire.
A tal proposito il Boston Consulting Group ha messo a punto uno strumento – il Future skills architect (Fsa) – in grado di analizzare le performance di un Paese calcolandone l’indice di maturità (Fsa Maturity Index) e fornendo modelli che rispondano agli obiettivi specifici. Si tratterebbe di un importante sostegno per un paese come l’Italia che si colloca al 34esimo posto sotto Cile e Malesia, con uno skills mismatch attorno al 38,2%. E le azioni messe in campo dal governo per dare forza allo sviluppo di nuove competenze – ad oggi – sono attorno al 44,2 su 100, al di sotto della media mondiale, seppur di poco (la media è 45).
Il ritardo è su più fronti: la scuola risulta, nell’insegnamento del pensiero critico, del 50% sotto i paesi al vertice, con un punteggio pari a 43. Ma anche sul campo della formazione continua, la posizione dell’Italia è due volte inferiore a quella dei paesi leader, così come sull’applicazione dello smart working: la percentuale delle persone che lavoravano da remoto in epoca pre-Covid era ferma al 23%, contro il 40% dei paesi in testa alla classifica.
L’Fsa Maturity Index, con i suoi 59 indicatori, valuta tre campi – capacità, motivazioni e opportunità – cui corrispondono sette pilastri, che rappresentano non solo parametri di valutazione ma anche settori su cui intervenire: la presenza di skill di base (1), l’implementazione di iniziative di lifelong employability (ovvero continuare a studiare, imparare e aggiornarsi) (2), l’auto-realizzazione del lavoratore (3) e l’analisi delle risorse umane incentrata su bisogni, abilità e talenti della forza lavoro (4), cui si aggiungono l’accessibilità delle offerte (5), la cosiddetta skill liquidity – ovvero la capacità di favorire l’accesso al lavoro in aree lontane, con la possibilità del remoto (6) – e l’apertura all’inclusività (7).
Interessante notare, poi, che alcune formule innovative vengono, oggi, dall’esperienza maturata durante la pandemia, come è successo in Australia, dove è nata la piattaforma Hatch exchange, pensata per offrire lavoretti part-time agli studenti e poi divenuta uno spazio in cui mettere in rete chi aveva perso il lavoro.