Recruitment: la vivisezione del candidato non serve
Nell’era degli algoritmi e dei social, tutto è tracciabile e tutto è pubblico. Ma vivisezionare un candidato non è utile. Tecnologie sì, ma per valutare competenze
La vivisezione del candidato è uno degli scenari possibili con gli strumenti tecnologici a disposizione. È utile davvero? Quali sono i limiti che un HR manager si deve dare? Le tecnologie non cambiano solo il modo di lavorare, cambiano in profondità “il modo di fare HR”. Ne abbiamo parlato con Stefania Monini, responsabile HR&O di Cirfood; Roberto Degli Esposti, Executive Business Coach di SCOA e Franco Amicucci, fondatore di Skilla.
Stefania Monini
Responsabile HR&O di CIRFOOD
Stefania Monini è la responsabile HR&O di Cirfood, impresa leader nella ristorazione collettiva: 660 milioni di fatturato, 13.000 dipendenti di cui 1.000 all’estero. È un’impresa cooperativa che sta cambiando e innovando, mantenendo a riferimento i valori della cooperazione. Monini è in Cirfood dal 2016, ha una esperienza di oltre 30 anni in HR, maturata in aziende quali Telecom Italia, Alitalia, Indesit Company.
Nell’era degli algoritmi, dell’intelligenza artificiale e della gamification per valutare le competenze, come cambia il mestiere dell’HR manager?
«Il punto di vista da cui parto è quello interno a Cirfood, impresa che è in una forte fase evolutiva. Questo processo di innovazione vede la direzione HR in prima fila perché è chiamata a favorire il cambiamento del mindset delle risorse umane, a supporto dei cambiamenti dell’azienda: sono le persone che determinano l’evoluzione. Gli strumenti della digital transformation ci sono familiari, perché l’HR deve accompagnare la trasformazione, partendo dal proprio interno: questi strumenti sono parte integrante di tutti i processi di gestione e selezione delle risorse umane e di comunicazione interna. Pensi solo a quest’ultima: noi abbiamo cucine in tutto il territorio, le tecnologie ci consentono di arrivare dappertutto. Sono strumenti essenziali per raggiungere capillarmente persone che stanno in posti lontanissimi o che ricoprono ruoli molto diversi, consentendoci di clusterizzare linguaggi e contenuti. Per quanto riguarda la selezione del personale, utilizziamo molto le tecnologie e l’intelligenza artificiale. Il percorso di selezione è articolato, ma siamo soddisfatti dei risultati dati dall’uso delle tecnologie. Sintetizzando: le tecnologie mi aiutano ad arrivare lontano e a fare le cose meglio».
Poi come avviene la scelta del personale?
«Allora, sia per quanto riguarda le competenze tecnico-professionali, sia per ruoli che richiedono competenze manageriali, utilizziamo strumenti professionalmente solidi perché dobbiamo arrivare a capire se la persona è “fit” con Cirfood. Siamo una cooperativa con valori molto forti, molta collaborazione interna, molta attenzione alle persone… per questo non servono manager con stili fortemente direttivi, che “strappano”, ma persone sì determinate e che mettono a terra, ma anche con capacità di coinvolgere e portare a bordo. Abbiamo un modello di competenze molto preciso e su questa base, con strumenti di vario tipo con dei precisi Kpi, individuiamo le persone adatte, secondo un processo che finora si è dimostrato molto valido, con margini di errore limitati. Una selezione sbagliata ha costi alti, specialmente nelle posizioni chiave».
Con i social network, il privato è diventato pubblico: è utile e giusto scandagliare anche gli aspetti “privati” per valutare un candidato?
«Noi indaghiamo solo ciò che è utili sapere a fini lavorativi, quindi l’intensità di ciascuna delle competenze del modello, non la personalità o altri aspetti della vita privata. Quello che ci interessa è che la persona sia efficace sul lavoro, a 360°, nella implementazione ma anche nella relazione. Altro aspetto chiave è la condivisione dei valori dell’impresa, in particolare l’etica, la cooperazione, l’autenticità di pensiero e di azione».
Si fida delle tecnologie per la selezione del personale?
«Sì, quelle che utilizziamo, sempre relative alle competenze e non ad altri aspetti della personalità, con l’aggiunta di un colloquio di persona, ci restituiscono un quadro veritiero. Poi verifichiamo, nei primi sei mesi, la performance della persona rispetto al profilo dato dall’head hunter e in genere troviamo positive rispondenze, che non vuol dire essere immuni dall’errore. La mia esperienza dice che più si fanno selezioni accurate, con metodi professionali basati su kpi delle competenze, e più c’è la possibilità di selezionare la persona giusta».
Cosa cerca in un candidato?
«Cerchiamo persone che imparano velocemente, accettano la sfida come stimolo alla crescita, non si abbattono di fronte alle difficoltà, non si lamentano, affrontano i difetti dell’impresa e ne favoriscono il superamento. Persone che vogliono lasciare una traccia. Non si può poi lavorare nel food se non si ha passione; in tutti i ruoli, anche quelli di staff, si respira il fascino di un lavoro che ha forti riflessi sociali, attraverso la preparazione di cibi sani, gustosi, che tengano conto dell’impatto ambientale. Nelle posizioni più alte cerchiamo dei leader che ispirino gli altri con il loro esempio, che diano il senso del “perché” vale la pena alzarsi al mattino per venire a lavorare in Cirfood.
Direi quindi agilità, proattività, ricerca dell’eccellenza, orientamento al cambiamento. Ma anche collaborazione e generosità. E umiltà, non mettersi mai su un piedistallo perché si hanno due master o si è stati in grandi aziende. Le competenze vanno condivise con grande rispetto con chi ha tanta esperienza e sa fiutare il business anche senza tanti titoli accademici».
Che consiglio darebbe a un giovane?
«Gli direi di scegliere un’azienda capace di trasmettere il perchè fa le cose, perchè sta sul mercato. Sono quelle le aziende che hanno un futuro, in cui c’è un contesto fertile, in cui è bello lavorare. In Cirfood lavoriamo molto su questi aspetti: facciamo ristorazione perché vogliamo avere un impatto sul mondo che ci circonda, in termini di buona occupazione, facendo ristorazione in modo sano e al giusto prezzo, con attenzione all’educazione alimentare per tutti i nostri clienti. Questi sono i nostri tratti distintivi, i “nostri perché” e cerchiamo persone che si riconoscono in questi valori».
Roberto Degli Esposti
Executive Business Coach di SCOA
Roberto Degli Esposti, una lunga esperienza da manager e direttore HR di grandi gruppi industriali italiani. Dal 2013 è Executive Business Coach, Managing partner e Docente SCOA.
Nell’era degli algoritmi, dell’intelligenza artificiale e della gamification per valutare le competenze, come cambia il mestiere dell’HR manager?
«Paradossalmente questa situazione aiuta gli addetti delle risorse umane a vestire i panni di coloro che leggono la dimensione dell’impatto emotivo, della capacità dell’organizzazione di strutturare un’offerta attraente, di produrre una cultura capace di sviluppare le prestazioni. I dati che si possono raccogliere con le tecnologie vanno inseriti in questo contesto. Il ruolo dell’HR si nobilita perché queste dimensioni soft sono asset determinanti per il successo delle organizzazioni. La vera differenza tra due strategie è fatta dalla capacità di interpretazione che danno le persone nel quotidiano e questa capacità non è algoritmica, ma è emotiva, di ingaggio, di commitment, tutte dimensioni che diventano il presidio principale dell’Hr».
La famosa insostituibilità del fattore umano.
«È indubitabile! Ognuno di noi può vivere un’esperienza indimenticabile in un ristorante solo in ragione della capacità di relazione del cameriere. Questo fatto umano non è algoritmicamente riproducibile».
Oggi che è tutto pubblico, quali sono i limiti che un hr non deve superare?
Cosa è interessante sapere di una persona da assumere?
«Ritengo che non sia rilevante l’investigazione sui social o sulle piattaforme dove le persone raccontano la propria vita. Quello che, invece, è molto rilevante ai fini HR è poter investigare, insieme con il candidato, quali sono le modalità e i comportamenti che ha utilizzato in passato, in situazioni di successo e di fallimento. Investigare le storie insieme e approfondire con lui le modalità con cui è riuscito a superare queste situazioni – e anche i successi devono essere superati – è di sicuro di maggior rilievo che sapere se ama la pesca o quale squadra tifa».
Non rileva, ai fini dell’assunzione, una donna che magari rivela pubblicamente sui social che vuole avere un figlio…
«Ho avuto abbastanza tempo e fortuna per incontrare persone con molti figli capaci di fare prestazioni straordinarie e persone senza figli capaci solo di prestazione ordinarie. Non sono mai riuscito a trovare una correlazione diretta tra questi fenomeni, per cui mi sono fatto l’idea che è molto più importante investigare altro…».
Quanto sono affidabili le tecnologie per l’hr management?
«Sono utili per avere letture in più: non le considero affidabili, le considero una fonte di informazione utile a completare un quadro. Sono degli strumenti e come tali vanno considerati».
Più volte ha sottolineato l’importanza di lavorare “insieme” al candidato e “con” il candidato… perché?
«Lavorare insieme è importantissimo. Per i percorsi di inserimento di una persona, utilizziamo una metodologia chiamata competencies based recruitement, che prevede una video intervista al candidato, al quale poi consegniamo la registrazione in modo da poter discutere con lui le modalità di risposta, fargli prendere consapevolezza delle reazioni che ha avuto agli stimoli. Questo semplice esercizio, volto a creare un colloquio costruttivo e non valutativo, fa emergere spessissimo la capacità stessa del candidato di sentirsi o non sentirsi all’altezza del ruolo, oppure di correggersi mettendo a disposizione dell’intervistato elementi più profondi e veri. Questo è dirompente in termini di costruzione di una relazione positiva e la cosa strepitosa è che tutti i candidati ringraziano per aver attraversato questo processo, perchè comunque sia andata, c’è stata una crescita».
Cosa consiglia a un giovane che si va a candidare per una posizione lavorativa?
«Dovrebbe essere in grado di mettere a fuoco quelli che, in termini comportamentali, sono i suoi colpi da maestro. Ognuno di noi, nel proprio ambito di riferimento, ha delle particolari attitudini comportamentali riconosciute: sono gli elementi determinanti per avere successo in un lavoro. A un giovane suggerirei di avere piena consapevolezza dell’importanza di mettere a fuoco l’attitudine o la propria inclinazione naturale, perchè con quella lavorerà e cercherà di ottenere successo nel lavoro».
Franco Amicucci
Fondatore di Skilla
Quella di Franco Amicucci, esperto di formazione e fondatore di Skilla, è una riflessione ad ampio raggio sul tema dell’impatto delle tecnologie per il settore Hr e sull’intera società, con tutto il portato di dilemmi etici, non ancora risolti, che questa rivoluzione si porta dietro. La fase è quella dell’accelerazione sull’innovazione, sul 4.0, su algoritmi e intelligenza artificiale: uno scenario in cui non vanno più bene gli schemi del passato, nemmeno per gli hr: anche loro hanno bisogno di reskilling e di formazione “adaptive”.
Un tema molto vasto, con implicazioni giuridiche, quasi filosofiche…
«Proviamo a delimitare il campo, considerando gli effetti della rivoluzione tecnologica solo sul settore Hr. I grandi ambiti sono due: 1) il mondo Hr è abituato a lavorare sulla valutazione, formazione e sviluppo dei collaboratori, ma oggi la priorità è quella di lavorare prima di tutto su se stessi, sull’aggiornamento delle propria cultura e competenza digitale e sull’adeguamento di tutti i processi e strumenti Hr alla luce del digitale 2) La gestione di un grande processo di cambiamento culturale e organizzativo che deve coinvolgere tutta l’organizzazione. Un processo che riguarderà sia la parte hard, quella delle competenze delle persone, sia la parte soft, con la creazione di un mindset adeguato ai tempi. Mi riferisco alla cultura tecnologica, ai nuovi valori organizzativi, che sono più collaborativi che gerarchici, alla gestione di orari sempre più informali, ai nuovi modi di esercitare la leadership, all’interculturalità. Diciamo che è l’intero ciclo Hr che deve ripensarsi e rinnovarsi».
Lavorare su se stessi, cosa intende?
«Diciamo che in genere gli hr provengono da una cultura giuridica o economica, che oggi non basta più, perché le culture di base vanno integrate con nuove discipline in grado di gestire la complessità, il continuo cambiamento portato dalla rivoluzione digitale».
Il tema della tavola rotonda è “la vivisezione del candidato”. Dove sta il limite per un recruiter?
«La parola “vivisezione” mi crea un po’ di disagio, preferirei utilizzare il tema della valorizzazioni di variabili e sfumature spesso trascurate in ambito selettivo. Ad esempio non sono spesso valorizzate esperienze e competenze in ambito sociale, artistico, culturale, sportivo, espressione di persone flessibili, aperte, curiose, caratteristiche che saranno sempre più importanti in organizzazioni in continua evoluzione, anche per i classici ruoli specialistici, qualunque sia il settore coinvolto, amministrativo, ingegneristico che sia.
La dimensione digitale permette allora di raccogliere moltissimi dati su tanti aspetti del candidato, ma sarà la dimensione olistica, l’equilibrio tra le tante competenze il fattore vincente.
Diritto e etica si intersecano, così come la necessità di tutelare la privacy e il valore che hanno i dati che si possono raccogliere e analizzare in rete.
Nel mio settore, quello della formazione, big data, AI e analytics sono fondamentali perché ci consentono di conoscere aspetti e caratteristiche di una persona, utili all’elaborazione di piani di adaptive learning, cioè programmi di apprendimento personalizzati, su misura. E questo è un grande vantaggio per tutti. I dati servono, sono utili – pensi solo al campo della ricerca scientifica – ma c’è un tema complesso di equilibri da contemperare e di grandi potenzialità da utilizzare. Ecco, probabilmente in un futuro immaginifico, nel senso di non ancora determinato, troveremo il modo migliore per far dialogare diritto e etica, cioè utilizzare i dati senza violare la privacy. Sono nodi non sciolti nella società, non dobbiamo pensare che tutto si risolva all’interno delle risorse umane».
Come si sintetizza questo scenario sull’Hr?
«Il settore deve cambiare, innovare e riadeguare la propria struttura. La nostra risposta si chiama ADA, un nuovo modello di Adaptive Digital Academy, la presenteremo al congresso AIDP. È uno strumento non della formazione, ma specifico delle risorse umane che riguarda lo sviluppo continuo di tutti i processi e delle funzioni Hr . E non è uno strumento difensivo: non aiutiamo le persone ad adeguarsi ai cambiamenti avvenuti, ma le prepariamo a quelli che verranno, un modello di formazione predittiva».
Che consiglio darebbe a un giovane che si candida a una posizione lavorativa?
«Gli direi innanzitutto di predisporsi all’idea di imparare ad apprendere in forme nuove e continue, penso al digitale e all’uso evoluto del web e della ricerca online, che non è il banale uso di google. Al tempo stesso gli direi di compensare la parte digitale con un investimento sulle “radici” della nostra cultura: l’arte, la musica, la letteratura. La complessità e il pensiero evoluto sono fondamentali nello scenario attuale. Infine gli direi di concentrarsi sulle skill del futuro e per questo abbiamo creato il white paper “Transversal Competencies Essential For Future Proofing The Workforce”».