Quiet firing: ti licenzio, ma senza dirtelo

Il termine è nato su TikTok, ma dietro al neologismo quiet firing si nascondono pratiche tossiche che leader inefficaci e organizzazioni poco attente alimentano, danneggiando il morale e la cultura aziendale, oltre che, naturalmente, le persone

cosa è il quiet firing e come impatta sull'azienda

Negli ultimi anni si è sentito spesso parlare di quiet quitting, ossia il fenomeno secondo il quale sempre più dipendenti si limitano a svolgere l’essenziale sul posto di lavoro, senza investire energie e riducendo al minimo gli sforzi. Ma se in quei casi le aziende non hanno saputo adottare strategie efficaci per trattenere e soprattutto motivare il personale, a un “silenzio organizzativo” si affianca una dinamica diversa, quella del quiet firing

Cosa è il quiet firing? Quiet firing significa licenziamento silenzioso e indica una progressiva esclusione del lavoratore da opportunità di crescita e riconoscimenti, che lo spinge a lasciare spontaneamente il posto del lavoro. Ma come è nato questo termine? E cosa succede in azienda quando questo accade? 

Quiet firing: quando la gestione diventa distruttiva

Ovviamente in nessuna azienda con una cultura aziendale sana, il quiet firing potrebbe avere terreno fertile. Ma cosa succede se il datore di lavoro, senza una ragione specifica, assegna a un dipendente compiti monotoni o lo sminuisce costantemente, per esempio durante le riunioni? O ancora, se un dipendente viene costantemente escluso da promozioni o aumenti di stipendio e il manager non gli fornisce alcun riscontro sul motivo per cui altri avanzano più rapidamente di  lui?

Il meccanismo del quiet firing può passare poi per il capo che nega a un dipendente l’accesso a informazioni essenziali per svolgere il lavoro al meglio, o smette di investire su una persona non riservandole tempo e attenzioni come risorsa valida.

Anche l’assegnazione di mansioni di basso profilo, solitamente destinate a un neoassunto, una gestione eccessivamente controllante, valutazioni di performance frequenti o un numero sproporzionato di feedback negativi sono tutti segni che un manager potrebbe essere alla ricerca di un pretesto per licenziare un lavoratore.

Da Tik Tok al quiet firing 

Forse tutti non sanno che il neologismo quiet firing è nato da un social, più precisamente da Tik Tok. Tra i primi a parlarne è stato il giovane influncer DeAndre Brown che in un video  ha coniato l’espressione per riferirsi al datore di lavoro che non premia i suoi dipendenti. 

Era il 2022 e in pochi mesi l’hastag #quietfiring ha conquistato oltre 10 milioni di visualizzazioni e le pagine delle più prestigiose testate internazionali.

Anche se l’idea che un datore di lavoro possa spingere un dipendente a dimettersi non è affatto nuova e rientra nel fenomeno del mobbing, pratiche più sottili come il ‘quiet firing’ non sono meno gravi. Questo fenomeno ha infatti un impatto significativo, come evidenziato nel State of the Global Workplace di Gallup, che stima che la bassa motivazione dei dipendenti costi all’economia globale 8,9 trilioni di dollari, pari al 9% del PIL mondiale.”

Quando mancano comunicazione e leadership

L’azienda, con una leadership debole e una gestione negligente, può spingere anche involontariamente un dipendente alle dimissioni, privandolo di supporto, impegno e opportunità di crescita. Ma ciò non toglie che ambienti aziendali che tollerano, se non favoriscono, anche indirettamente, il quiet firing discriminatorio danneggiano la cultura aziendale e mettono a rischio il successo del business. 

Una leadership consapevole dovrebbe riconoscere che, soprattutto con la crescente presenza di team multigenerazionali, i feedback non sono solo un’opportunità di ascolto, ma strumenti fondamentali per la crescita e per migliorare come leader.

Senza contare che il quiet firing ha un impatto diretto sul morale di tutti i dipendenti, contribuendo a creare un clima di sfiducia e opacità. Consentire che queste dinamiche si radichino significa inviare il messaggio che la trasparenza non è una priorità, una scelta particolarmente dannosa in un contesto sempre più attento ai principi ESG.

Cosa può fare l’HR?

I manager devono costruire un ambiente di lavoro basato sulla sicurezza psicologica, ma non sempre hanno le competenze per farlo. Spesso chi arriva a un ruolo di leadership lo deve alle sue capacità tecniche, senza una reale formazione nella gestione delle persone e questo può portare a insicurezza e a percepire l’ascolto e il supporto ai dipendenti come un peso anziché un dovere. 

Per contrastare questo fenomeno, è essenziale stabilire aspettative chiare e comunicarle apertamente, fornendo feedback costruttivi per aiutare i dipendenti a crescere senza il rischio di burnout. Un altro strumento efficace sono gli stay interview, incontri regolari in cui i lavoratori possono esprimere le proprie opinioni e necessità, rafforzando la fiducia e riducendo il turnover. 

È altrettanto cruciale formare i manager affinché sviluppino competenze di leadership, imparando a coinvolgere e supportare i collaboratori. Anche creare una cultura aziendale inclusiva e di supporto, con programmi di mentoring e attenzione al benessere mentale, previene dinamiche tossiche.

Quiet firing e la legge

La giurisprudenza non utilizza mai il termine “quiet firing”, ma ricordiamo che in Italia vige una legge contro il mobbing. L‘articolo 2087 del codice civile impone al datore di lavoro l’obbligo di tutelare la salute psicofisica dei dipendenti da ogni rischio legato all’attività lavorativa, sia che questo derivi dai superiori gerarchici (noto come “mobbing verticale”), sia che provenga dai colleghi (definito “mobbing orizzontale”).

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