Per vedere bisogna guardare

Come si fa a valorizzare l’unicità se non sappiamo in cosa ognuno è unico? Quali competenze possono aiutare a scoprirlo? Come guidare il team composto da persone e personalità diverse?

A cura di Anja Puntari, Executive Business Coach e artista

Mi trovo al centro culturale Tabakalera nella città basca di San Sebastian. Di fronte al museo si erge una mappa dell’Europa diversa, un po’ come quelle mappe che si vedono nei musei storici su come era diviso il vecchio continente tempo fa. Ma questa mappa è attuale.

Ci metto un po’ per capire la logica: vedo la regione basca che copre una fetta della Spagna del nord e una parte della Francia sud-ovest. Durante la mia visita in terra basca ho imparato molte cose su questa popolazione e sulla sua orgogliosa identità. Torno alla mappa e vedo una serie di altre forme che non rispecchiano i normali confini dei paesi come li conosciamo noi oggi. Poi il mio sguardo si ferma sulla mia terra nativa, la Finlandia. Ma invece di trovare la solita divisione della penisola scandinava con Svezia e Norvegia attaccate in alto, alla Finlandia c’è una fetta che ricopre tutto lo spazio del nord. Hmmm… strano…

SAMI

Poi capisco: sono i Sami. La mappa rappresenta i popoli europei con identità, lingue e tradizioni che non appartengono a un paese nazionale ma che, nonostante ciò, esprimono un senso di popolo attraverso una cultura, una lingua, un’appartenenza a un’etnia. Ed esattamente mentre inquadro la mappa sento una leggera ventata di emozioni miste; un strano cocktail di senso di colpa, irritazione e confusione che nasce dal fatto che, a modo mio, anche io sono cieca al vissuto di chi mi è vicino. Mi risulta evidente e comprensibile lo sforzo dei Baschi di esprimere una vitalità di popolo mentre i Sami, che vivono nella mia stessa terra, non li considero. Non perché voglio respingere i loro diritti, semplicemente non sono nella mia agenda.

Forse perché il sistema ufficiale del mio stato in generale li considera poco, forse perché non mi interessa l’argomento particolarmente, forse perché non mi è mai capitato di conoscere un Sami di persona; i punti di contatto con loro per me sono sempre stati minimi.

E come può sfuggire la vita, gli sforzi e l’esistenza di un intero popolo che vive a fianco a noi cosi può capitare anche che non notiamo il vissuto dell’altro, degli altri nella nostra quotidianità, al lavoro, in famiglia. Molte volte non perché le vogliamo escludere ma semplicemente perché non le vediamo.

Questa semplice considerazione non si trova in molte delle discussioni in merito all’inclusione delle diversità nelle organizzazioni. Difficile includere se in primis non ci rendiamo conto che qualcuno si sente escluso.

Ma come si fa a interessarsi di un argomento, una tematica o di un popolo se non si sa che c’è? Come ci si può accorgere che magari anche proprio accanto a noi c’è qualcosa di valore, ma che non siamo stati abituati a vedere?

Da qualche anno a questa parte, i concetti di Diversity & Inclusion sono diventati centrali nelle aziende, e a questi due termini si è poi aggiunto più recentemente un terzo elemento, che è andato a comporre il trinomio Diversity, Equity and Inclusion. Oggi però anche questa definizione si sta spostando a margine per fare spazio a un concetto che ancora di più potrebbe portare al raggiungimento del contesto eticamente corretto a cui tanti aspirano, ovvero il riconoscimento e il rispetto dell’unicità di ognuno.

L’unicità a cui facciamo riferimento può avere risvolti tipicamente professionali, come le competenze, le attitudini, il modo di pensare, la velocità di agire, il bioritmo; ma anche lati più personali e probabilmente più difficili da affrontare, come il background culturale, l’inclinazione sessuale, la religione, i valori.

Ciò che spesso crea un problema per i manager o per chi, più in generale, gestisce persone, è non comprendere com’è fatto l’altro e non saper giocare le leve giuste per aiutare la persona a performare al massimo e a dare un contributo di valore. Su cosa scivolano tanti manager? Per esempio aspettarsi che l’altro sia motivato dalle stesse cose che motivano il manager stesso. Edgar Schein con i suoi career anchors rendeva esplicito, già decenni fa, come persone diverse possono essere motivate da cose molto diverse nel lavoro, chiamando questi motivatori ancore professionali. Per esempio sono mossi principalmente dalla gratificazione economica, altri una realizzazione creativa, altri ancora da un senso di sfida o un buon work-life balance. Questi motivatori inoltre non sono permanenti ma durante la vita possono cambiare.

La sfida manageriale però non è solo individuale, non riguarda solo la relazione 1:1 ovvero leggere correttamente i bisogni dei propri collaboratori superando i propri bias ma sopratutto di guidare un ecosistema di persone nel quale ognuno ha i propri filtri in relazione agli altri componenti del team. Ciò che mi arriva da innumerevoli manager nelle sessioni di coaching è proprio questo: la difficoltà di saper dare un indirizzo a un insieme complesso e vivo poiché la diversity per sé, se non canalizzata in maniera adeguata, spesso è fonte di conflitti e fatica invece che uno spazio di varietà, idee e valore aggiunto. Nel peggior caso la diversity rende il lavoro lento, poco produttivo e poco motivante. Alla base di tutto ciò c’è la sfida manageriale di aiutare il proprio team a vedere e comprendere gli altri componenti del team e mettere in pratica un modo di lavorare insieme che permetta ad ognuno di dare il massimo contributo.

Ma ancora una volta, come si fa, da manager, a portare a galla qualcosa di cui magari non si conosce l’esistenza?

In questi casi l’arma è aiutare le persone a guardare e guardarsi attentamente. Possiamo vedere ovvero comprendere solo se guardiamo. La soluzione sta nel creare lo spazio e il mindset di osservazione per comprendersi meglio. Vuol dire creare tempo al team per riflettere insieme. Lo spazio dell’osservazione e l’elemento che fa cadere il velo dell’invisibilità e rende di valore i tratti specifici di ogni persona del team. A volte questo percorso è abitato da emozioni cupe o difficili poiché l’incontro con l’unicità dell’altro non è sempre piacevole ma a momenti può essere anche condito di gioia e felicità della scoperta dell’altro.

La scoperta dell’unicità di ognuno di noi in fondo può essere un viaggio per ridisegno la mappa dell’ecosistema che conosciamo per scoprire che in realtà sono innumerevoli e inaspettate le mappe che ci circondano.

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