People at work, lo studio che racconta cosa è importante per i lavoratori
Dopo la pandemia, il mondo del lavoro è cambiato. La retribuzione resta una priorità ma subentra l’insicurezza per il futuro, anche per il timore dell’intelligenza artificiale. Gli italiani sono i più insoddisfatti della loro condizione lavorativa
La pandemia si è allontanata dal quotidiano ma il cambiamento introdotto nel mondo del lavoro nella fase emergenziale si è radicato e le persone si sono adattate al nuovo modo di rapportarsi alla propria professione, tra certezze e insicurezze.
Da quattro anni ADP Research Institute elabora un report – People at work – che registra e fotografa quali sono le priorità e i timori del momento. Sono 34.612 le persone intervistate in 18 Paesi nel mondo, a cui è stato chiesto cosa desiderano, cosa si aspettano e cosa “ottengono” dal loro lavoro e dalla loro azienda.
Talvolta le priorità sono rimaste le stesse, altre volte l’ingresso massiccio della tecnologia è visto in alcuni casi come una minaccia “primaria”. Di certo, tuttavia, la retribuzione è il pensiero principale che le persone hanno, al 55%, anche se il dato un po’ si modifica a seconda dei continenti.
La retribuzione
Importante è sapere che, nell’anno trascorso, più di tre lavoratori su quattro hanno ricevuto un aumento di stipendio che in media è stato pari al 4%; in Italia però al 3%. E non è l’unico numero che contraddistingue il nostro Paese dagli altri, perché in Italia l’insoddisfazione è maggiore di altrove nel mondo.
I dipendenti, in generale, tuttavia, si aspettano un ulteriore incremento della retribuzione, anche se il divario di genere su questo piano si avverte ancora, e le donne restano più a lungo degli uomini in uno stato di stagnazione retributiva. Altro discrimine è legato al ruolo che si ricopre: i manager si aspettano un aumento che va al di là del costo della vita, termine di paragone che vale maggiormente per i livelli più bassi.
Flessibilità del lavoro e generazioni
In questo contesto, quindi il cambiamento più grande intervenuto con la pandemia, è quello legato alla flessibilità del luogo e dell’orario di lavoro, la cui richiesta varia anche in base all’età. Certamente, il fatto che si trovino a lavorare fianco a fianco generazioni che hanno vissuto il periodo pre-pandemia e altre che abbiano fatto il loro ingresso solo dopo o durante, fa sì che le aziende, e in generale i datori di lavoro, debbano tenere conto di questi aspetti e non ricorrere a schemi rigidi di impostazione lavorativa, sul piano della flessibilità oraria e di luogo, ma è necessario che si sforzino piuttosto di modellarli sulla richiesta delle persone stesse. C’è da dire, tuttavia, che il lavoro da remoto ha ingenerato anche un timore del controllo dei datori di lavoro.
Sebbene, comunque, i dipendenti si sentano più sicuri del proprio lavoro rispetto a un anno fa, temono però ciò che può accadere con l’evoluzione di un sistema in cui sempre di più fa il suo ingresso l’intelligenza artificiale, talvolta vista anche come responsabile del fatto che la formazione offerta dai datori di lavoro risulti peggiorare nel tempo.
Altro aspetto che indica un divario tra vecchie e nuove generazioni di lavoratori è quello legato ai temi dell’inclusione e della diversity, a cui sono decisamente più sensibili i giovani. I lavoratori tra i 25 e i 34 anni che ritengono importanti le misure di diversificazione e inclusione sono il 40%, rispetto al 33% di quelli tra i 45 e i 54 anni.
Stress e lavoro
Lo stress è un elemento cruciale: per il 15% dei lavoratori è qualcosa che viene avvertito quotidianamente. Curioso anche scoprire che sono più stressati gli stagisti e i collaboratori individuali dei manager. In ogni caso, un po’ tutti ritengono che i datori di lavoro facciano poco o nulla per intervenire sul piano della salute mentale, promuovendo azioni che tendano al benessere lavorativo.
In un contesto generale in piena e continua evoluzione, ciò che si raccomanda ai datori di lavoro è di essere trasparenti nel comunicare le iniziative che si intende intraprendere e il loro impatto sulle questioni che stanno a cuore alle persone, a cui è importante dare fiducia: in questo modo il cambiamento non sarà solo una sfida, ma una opportunità.
In Italia
Dando uno sguardo più specifico all’Italia, ciò che emerge dal rapporto ADP è l’elemento dell’insoddisfazione lavorativa, la più alta a livello globale: più del 16% dei lavoratori italiani afferma di essere insoddisfatto del proprio titolo professionale, il numero più alto di qualsiasi altro Paese. A livello globale, lo segnala solo il 7% dei lavoratori e in Europa la percentuale è circa del 10%.
Insoddisfazione registrata anche riguardo l’avanzamento di carriera (30%) e sul piano della flessibilità oraria (16%) e di luogo (14%). In questo caso gli italiani sono secondi solo ai giapponesi.
Inoltre, i lavoratori italiani sono i più insoddisfatti d’Europa dal punto di vista della sicurezza lavorativa, della retribuzione e della cultura aziendale. Del resto sono quelli che hanno ricevuto gli aumenti di stipendio più bassi del continente. Lo stress, infine, è una costante per il 64% delle persone e la convinzione è che gli sforzi fatti non vengano compresi e considerati.