People at work 2023: il report annuale di ADP. Aspirazioni, obiettivi ed esigenze sul lavoro.
La percezione che i lavoratori pretendano molto dal lavoro, e che ne abbiano davvero bisogno, è più forte che mai. Richiedono una remunerazione adeguata all’aumento del costo della vita e vogliono sentirsi apprezzati per ciò che fanno.
Che il mondo del lavoro sia in radicale mutamento, è oramai da tempo un dato di fatto, tanto che i macrotrend globali di questa evoluzione sono già ben delineati e riassumibili in poche ma significative parole-chiave: flessibilità, cultura solidale, formazione. Con un grande spettro, quello dell’inflazione, che richiede un aggiornamento urgente degli stipendi al costo della vita.
«Nel 2023, il lavoro ha risentito ancora degli effetti causati dalla pandemia. Le aziende affrontano carenze di profili e un aumento costante dell’inflazione, dovendo al contempo incentivare la produttività e la redditività nonostante l’incremento dei costi aziendali» ha dichiarato Nela Richardson, capo economista dell’ADP Research Institute, che annualmente esplora gli atteggiamenti dei dipendenti nei confronti del mondo del lavoro e ciò che si aspettano nel futuro attraverso una ricerca globale, “People at Work: A Global Workforce View” che quest’anno ha visto il coinvolgimento di 32.612 lavoratori in 17 Paesi nel mondo – in Italia sono stati oltre duemila i lavoratori intervistati –.
L’eterna nota dolente: lo stipendio
Dalla ricerca è emerso che l‘aumento degli stipendi è un’area chiave su cui i lavoratori e le aziende dovranno continuare a concentrarsi nel prossimo futuro: il 44% dei lavoratori, infatti, ritiene di ricevere una retribuzione troppo bassa rispetto al ruolo ricoperto, benché più di sei lavoratori su dieci (62%) abbiano già ricevuto un aumento l’anno scorso, con incrementi medi pari al 6,4%; oltre otto dipendenti su dieci (83%) si aspettano un aumento entro fine anno e in media prevedono un incremento dell’8,3%. Inutile dire che il gender pay gap è ancora un tema presente, ma forse, in questo frangente, si può ipotizzare che gli uomini siano i più inclini a dichiarare di ricevere uno stipendio non adeguato: in Italia ha infatti ottenuto un aumento, rispettivamente del 5,8% e del 5,2%, il 50% degli uomini e solo il 36% delle donne.
Inoltre, secondo il report, un italiano su quattro (23%) pensa che rispetto a tre anni fa il divario retributivo sia migliorato all’interno della propria azienda, ma il 50% pensa che la situazione sia la medesima, e il 20% che sia addirittura peggiorata.
Scorporando poi i dati in base alla fascia d’età, si notano interessanti variazioni: il 44% della fascia di età della Generazione Z (18-24 anni) prevede infatti di ricevere un aumento di stipendio nei prossimi 12 mesi, in linea quindi con la media italiana; la percentuale cresce al 53% nella fascia 25-34 e al 45% in quella 35-44, per poi scendere al 38% in quella 45-54 e al 36% tra gli ultra 55enni.
Allo stesso modo, solo un quarto (23%) della Generazione Z e di coloro che si avvicinano all’età pensionabile (25%) crede di essere in linea per un bonus, contro circa uno su tre dei colleghi appartenenti ad altre fasce d’età.
Flessibilità e importanza del work life balance
Ancora rilevante l’importanza data alla flessibilità a livello globale: per quasi tre lavoratori su dieci (29%) l’orario flessibile è un elemento importante, che vede infatti i lavoratori in modalità “ibrida” maggiormente soddisfatti della flessibilità di cui godono (60%), mentre la minor soddisfazione (50%) si registra tra le persone che si recano tutti i giorni in ufficio. E proprio le esigenze di flessibilità dei dipendenti che non possono scegliere dove lavorare rappresenta una delle grandi sfide per i datori di lavoro, se è vero che il lavoro da remoto sta assumendo un respiro sempre più internazionale, con quasi la metà dei lavoratori (48%) che afferma di essersi già trasferita o di pensare di trasferirsi all’estero continuando a lavorare per la propria azienda.
Per quanto concerne la situazione italiana, se il 21% degli intervistati pensa che nei prossimi anni vi sarà piena flessibilità oraria e il lavoro verrà giudicato in base alla produttività e ai risultati, per il 31% è fondamentale che vi sia una flessibilità soprattutto oraria piuttosto che dei luoghi (13%).
Flessibilità della quale dispone il 44,6% del campione, tanto che il 34% pensa che la propria azienda sosterrebbe anche un trasferimento all’estero, e di questi il 28% lo farebbe volentieri in quanto il proprio lavoro non necessita di essere svolto in un particolare luogo. Parlando tuttavia di flessibilità globale attuale, la percentuale che afferma di averla è del 18%, mentre il 34% dispone di flessibilità parziale (remoto più ufficio), e un 45% va ancora in ufficio tutti i giorni. Infine, il 19,5% degli italiani pensa che verrà adottata la settimana lavorativa di quattro giorni e il 18% che si potrà lavorare da qualsiasi parte del mondo.
«La percezione che i lavoratori vogliano molto dal lavoro, e che ne abbiano davvero bisogno, è più forte che mai. Richiedono una remunerazione adeguata all’aumento del costo della vita e che li faccia sentire apprezzati per ciò che fanno. Aspirano a un lavoro che li soddisfi dal punto di vista personale e professionale, auspicando quella flessibilità che negli ultimi anni è sempre più richiesta. Desiderano una cultura aziendale che li sostenga e promuova l’equità e l’inclusività. Inoltre, si aspettano che i datori di lavoro investano nel loro futuro attraverso la formazione e le opportunità proattive di sviluppo professionale» ha commentato Richardson.
Cultura solidale in azienda
Se è vero che il ruolo della salute – sia fisica sia mentale – dei lavoratori va tutelata e incoraggiata con iniziative e attività “virtuose”, i dipendenti che dichiarano di poter parlare apertamente al lavoro della loro salute fisica sono il 68% e di quella mentale il 64%, anche se la maggior parte riporta di non essere sostenuta dai propri responsabili (64%) e colleghi (71%). Di contro i datori di lavoro continuano a introdurre iniziative sempre più innovative per promuovere una buona salute mentale: in cima alla lista troviamo attività di team building (27%) e pause per la gestione dello stress (27%). I programmi di assistenza ai dipendenti stanno prendendo piede (22%), mentre appare meno gettonata l’offerta di consulenza specializzata (18%). Le aziende continuano a promuovere iniziative di diversity, equità e inclusione (DEI) e, da questo punto di vista, le grandi aziende stanno facendo i maggiori progressi.
Ponendo il focus sulla situazione italiana, il 37,7% dei lavoratori del Belpaese pensa che il proprio datore di lavoro non stia facendo nulla per promuovere una salute mentale positiva, mentre il 18% è convinto che invece sia attivo soprattutto tramite il dialogo, favorendo una comunicazione continua e costante, l’11% dichiara che il proprio datore di lavoro favorisca dei giorni di ferie per il benessere personale (per esempio in molte multinazionali il giorno del compleanno corrisponde a un giorno di ferie regalato), sempre l’11% afferma che nella propria azienda sia in vigore il diritto di disconnessione da mail e messaggi fuori dall’orario di lavoro, mentre secondo il 10,5% vi sono vere e proprie pause stabilite per la gestione dello stress (per esempio stanza zen, meditazione, palestra, etc.).
Stress causato non solo dal carico di lavoro, ma anche dall’insoddisfazione: il 19,6% degli italiani afferma infatti di non sentirsi soddisfatto della propria posizione, quasi uno su cinque. Le cause principali sono tre: il 38% lamenta il fatto di avere avuto un aumento delle responsabilità che non è combaciato con un aumento di stipendio, il 34,3% non ha avuto l’avanzamento di carriera che aspettava, per il 30% il proprio lavoro non è più stimolante.
L’incertezza del futuro
Quasi quattro lavoratori su dieci (37%) dichiarano di non sentirsi sicuri sul lavoro, tuttavia, l’ottimismo riguardo ai prossimi cinque anni nell’ambiente di lavoro resta elevato (87%). I dipendenti più giovani sono quelli che si sentono meno sicuri sul lavoro (50%), ma sono disposti ad adattarsi pensando di cambiare settore (20%) e persino di fondare un’impresa propria (25%). Al contempo, un lavoratore su sei con più di 55 anni di età (17%) sta prendendo in considerazione la pensione anticipata.
Venendo alla situazione italiana, un lavoratore su tre (34%) non si sente sicuro del proprio posto di lavoro e teme che una nuova crisi economica e il rallentamento dell’economia possano portare la propria azienda a licenziamenti. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, i timori sono maggiori negli uomini (38%) e inferiori nelle donne (30%).
I sentimenti di precarietà sono più alti nella fascia 35-44 anni (37%), segue la Gen Z con il 36%, dai 24 ai 34 è timoroso il 34%, mentre dai 45 ai 54 anni il 33%; solo il 26% degli over 55 è invece preoccupato per il proprio posto di lavoro.
Complessivamente, sei lavoratori su dieci (60%) pensano che nessuna professione sarà immune dall’attuale incertezza economica, e il 13% crede che l’uso dell’intelligenza artificiale diventerà la norma nel proprio settore nei prossimi cinque anni, riducendo così le attività manuali.
«Poiché i dipendenti continuano a chiedere e ad aspettarsi sempre di più, tocca ai datori di lavoro trovare modi innovativi per soddisfare le loro esigenze in maniera sensata, ottenendo così i massimi livelli di motivazione, coinvolgimento ed efficacia» ha concluso Nela Richardson.