Peer review, quando i top manager vengono valutati dai dipendenti
Fausto Fusco, direttore delle Risorse umane di Bip, racconta come la società di consulenza abbia deciso di applicare l’innovativa metodologia di analisi delle performance: «Un approccio che serve a fare crescere tutta l’azienda»
«Il nostro concetto di peer review non riguarda solo la valutazione, ma è inserito in un’idea di crescita e sviluppo di un professionista all’interno dell’azienda. L’aspetto più innovativo di questo metodo è una valutazione a 360 gradi dedicata a una particolare figura, ad opera non solo dei propri referenti ma anche di colleghi e collaboratori a diversi livelli. E noi lo applichiamo sul top management». Fausto Fusco è il direttore Risorse umane di BIP, multinazionale di consulenza aziendale nata a Milano, che conta oggi oltre 3.300 professionisti nel mondo: 2.500 in Italia e altri 800 circa concentrati soprattutto in Brasile, Gran Bretagna, Spagna e Stati Uniti. Dal 2018 questa importante realtà – che nel 2020, in piena pandemia, ha portato avanti il proprio piano di sviluppo, completando importanti acquisizioni (addirittura la più grande della sua storia) – utilizza il metodo della peer review nell’analisi delle performance dei top manager della società.
Fusco, perché BIP ha deciso di utilizzare in modo stabile la peer review come metodo aziendale?
«Da subito l’abbiamo interpretata come un approccio in linea con quella che è la nostra filosofia. BIP esiste dal 2003, è una realtà molto dinamica e in generale il settore nel quale operiamo ha alti tassi di turnover. Da sempre crediamo che sia importante legare l’analisi e la valutazione degli obiettivi aziendali ai risultati raggiunti dai singoli team e dalle singole persone. A questo abbiamo integrato un punto di vista “aggiuntivo”, la peer review come metodologia per i top manager».
Come viene svolta questa valutazione?
«La nostra concezione ci ha portato a puntare sulle figure che si collocano a un livello medio alto della scala gerarchica: possono essere valutate sia dal Presidente o dall’Ad, sia da colleghi di diversi livelli. La valutazione di un collega di primo livello organizzativo, per esempio, viene espressa da circa dieci persone. Un algoritmo mette insieme queste valutazioni e ottiene un risultato complessivo, offrendo contemporaneamente un quadro su quali aree sia necessario migliorare. Ma c’è un altro aspetto fondamentale per noi».
Quale?
«Alla peer review si guarda spesso solo come valutazione, ma in questo modo si tende a sottovalutare l’aspetto di crescita e sviluppo che introduce nelle dinamiche aziendali, accompagnando percorsi di sviluppo su alcuni ambiti di miglioramento. L’importanza della peer review cresce con il livello manageriale e di leadership. Noi abbiamo una piattaforma di gestione risorse umane con la quale riusciamo a effettuare la valutazione di tutti i nostri colleghi da parte dei loro rispettivi responsabili. Arrivati a un certo punto del proprio percorso professionale è interessante poter aver un giudizio più allargato. Per questo motivo stiamo riflettendo sulla possibilità di introdurre la peer review anche per il middle management».
Il processo avviene una volta all’anno?
«C’è una valutazione annuale, ma si tratta di una modalità flessibile e può essere applicata anche in momenti particolarmente delicati o per passaggi rilevanti. Può essere attivata ad hoc, come accade con la nomina di una commissione per la promozione a Equity Partner, ad esempio, che non prende in esame solo aspetti quantitativi ma anche qualitativi».
Su quali materie o competenze avviene l’analisi?
«Le dimensioni su cui si viene valutati sono ben identificate e riguardano quattro o cinque macro-aree: tra queste lo standing professionale, le capacità di business development, le attitudini di leadership. Ma è chiaro che nel dettaglio l’aspettativa per un certo tipo di livello professionale cresce in proporzione con il ruolo ricoperto».
In questi primi tre anni di applicazione quali risultati avete osservato?
«Come in tutte le modalità nuove, inizialmente c’è stato scetticismo da parte di alcuni manager. Ma nel tempo, quando se ne sono compresi il meccanismo e l’utilità per le linee di sviluppo, è diventato quasi naturale. Un processo richiesto e sollecitato dagli stessi manager, perché sinonimo di una certificazione più ampia».