Parità salariale, l’Unione Europea cerca di colmare il gap retributivo tra uomini e donne
La Proposta di direttiva 2021/93 del Parlamento e del Consiglio punta a fare chiarezza sulla parità di valore a parità di ruoli.
Un passo avanti verso la parità salariale tra uomini e donne a parità di ruolo. A farlo è l’Unione europea con la proposta della direttiva 2021/93 del Parlamento e del Consiglio, tesa a «rafforzare l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore attraverso la trasparenza delle retribuzioni e dei meccanismi esecutivi».
La direttiva, di fatto, cerca di fare chiarezza su ciò che significa «parità di valore». Nella consapevolezza che difficilmente i Paesi europei avrebbero fatto passi in avanti rispetto alla Risoluzione del 2014 (quella su sfruttamento sessuale e prostituzione e sulle conseguenze ai fini della parità di genere), l’Unione Europea si è mossa a tutela delle persone discriminate.
Importante chiarire che la direttiva non impedirebbe al datore di lavoro di retribuire in modo diverso uomini e donne, ma la scelta – nel caso venga fatta – dovrebbe essere giustificata da motivazioni precise, che non abbiano a che fare con il genere o con i pregiudizi; i criteri dovrebbero essere, quindi, oggettivi e neutri.
La proposta prevede un concetto ampio di retribuzione, che va oltre quella base e comprende anche le parti accessorie. A essere interessati sono tutti i lavoratori, sia del settore pubblico che di quello privato, anche quelli parziali e a tempo determinato, i tirocinanti e gli apprendisti, così come i lavoratori domestici; i datori di lavoro dovranno quindi, in modo trasparente, pubblicare le caratteristiche precise della figura che viene ricercata e la retribuzione prevista, senza dover prendere informazioni sulla precedente retribuzione ricevuta.
In un intervento su Il Sole 24 Ore, Anna Zilli, associata di Diritto del lavoro all’Università di Udine, espone anche ciò che accadrebbe sotto il profilo processuale, nel caso in cui il datore di lavoro non abbia rispettato i criteri: sarà egli stesso a dover provare di non aver discriminato e le spese saranno compensate, a meno che non venga ravvisata la malafede da parte della persona che si è sentita discriminata. Toccherà poi agli Stati membri decidere quali meccanismi sanzionatori mettere in atto e i lavoratori, dal canto loro, avranno diritto a ogni risarcimento.