Osservatorio WTW: i salari in Italia crescono nel 2022 del 3%, ma a causa dell’inflazione, in realtà calano a -4%
Mentre l’inflazione sale (stimata a fine anno al 7%) i budget per i salari delle aziende italiane restano indietro, con un aumento pari al 3% e in linea con la media europea. Un dato allarmante che porta il salario reale dei lavoratori dipendenti italiani quindi a diminuire del 4%. Ecco cosa emerge dall’Osservatorio sulla dinamica retributiva di WTW (ex Willis Towers Watson) – società leader nella consulenza, nel brokeraggio e nell’offerta di soluzioni alle imprese e alle istituzioni – condotto su un campione di oltre 640 aziende italiane di medie o grandi dimensioni.
Il gap tra aumento dei salari e inflazione per il 2022 in Italia fa registrare il segno meno nelle buste paga del lavoratori: a fronte, infatti, di un 7% di inflazione, gli aumenti sono stati in media del 3% – in linea con il resto d’Europa: Austria (+3,2%), Francia, (+3%), Germania e Olanda (+3,5%), Spagna (+3,3%) e Gran Bretagna (+3,9%) registrano aumenti similari – portando quindi gli stipendi reali dei lavoratori dipendenti a una diminuzione del 4%. È quanto emerge dall’Osservatorio sulla dinamica retributiva di WTW (ex Willis Towers Watson) – società leader nella consulenza, nel brokeraggio e nell’offerta di soluzioni alle imprese e alle istituzioni – condotto su un campione di oltre 640 aziende italiane di medie o grandi dimensioni, per un totale di 310.000 osservazioni individuali su un campione di titolari che hanno mantenuto stabile il proprio ruolo in azienda.
Inflazione e gender gap
Proprio l’aumento importante del tasso di inflazione ha impattato fortemente sulle retribuzioni e sulla loro crescita, benché quest’ultima non si discosti particolarmente da quella degli anni appena passati. Si tratta del secondo anno consecutivo in cui in Italia il tasso di inflazione supera l’incremento medio delle retribuzioni, una situazione che non si verificava da circa trent’anni, ovvero dai primi anni Novanta: a partire dal 2010, inoltre, l’aumento medio delle retribuzioni in Italia è sempre stato superiore rispetto all’inflazione, ininterrottamente fino al 2021.
«Il mercato del lavoro italiano nel 2022 è stato comunque decisamente competitivo e le aziende non hanno mai smesso di cercare i profili più specializzati, come per esempio ingegneri, professionisti dell’IT per lo sviluppo di app, la cybersecurity o per l’e-commerce – afferma Rodolfo Monni, responsabile indagini retributive di WTW –. La dinamica retributiva per la componente fissa della retribuzione ha comportato una crescita dei salari, al netto dell’inflazione, ma il divario di genere è ancora forte nel nostro Paese: nell’87% delle aziende la media del salario fisso delle donne è infatti ancora oggi inferiore a quella degli uomini. É auspicabile un’inversione di tendenza su questo fronte».
Il 2023, settore per settore
Se nel 2022 le aziende hanno cercato di migliorare il potere d’acquisto dei propri dipendenti intervenendo con aumenti sulla retribuzione fissa – il 60% delle aziende si è orientato su interventi temporanei, di natura monetaria mentre il 40% si è orientato su misure di tipo più strutturale e duraturo, soprattutto per i settori con una profittabilità più alta, come telecomunicazioni, oil & gas, automotive – nel 2023 gli aumenti retributivi del mercato programmati in Italia si attestano su una media del 3,9%. Ci sono tuttavia differenze sostanziali tra i diversi settori merceologici con il comparto TMT (technology-media-telecomunicazioni) che registra la crescita più alta, arrivando al 4,6% (+0,7% rispetto alla media) seguito dall’Assicurativo (+ 4,4%) e dall’oil & gas (+4,2%) mentre il settore Retail registra invece l’incremento più basso (3,2%, -0,7% rispetto alla media), superato appena dall’Energy, con un +3,3% e dal mondo dei beni di consumo durevoli (+3,4%).
Le differenze regionali
La divaricazione tra ritmo di crescita (asfittico) degli stipendi dei dipendenti del settore privato e quello (a spron battuto) dei prezzi è stata registrata anche dall’Osservatorio JobPricing, che raccoglie in parallelo i dati relativi all’andamento delle retribuzioni globali annue (comprensive di parti variabili) nelle Regioni e nelle principali città italiane e li affianca a quelli relativi all’inflazione media, sempre nel raffronto col primo semestre 2021. Ne risulta un saldo negativo, a livello nazionale, di oltre cinque punti percentuali: +1,1% i salari complessivi, +6,3% i prezzi. Importanti, tuttavia, i dati di alcune città italiane, che si discostano dalla media: a Bari, per esempio, nel semestre in analisi le retribuzioni risultano in calo dello 0,3%, mentre i prezzi salgono del 6,7% (con un gap, dunque, di sette punti percentuali). Anche Veneto e Friuli Venezia Giulia registrano un segno meno davanti agli incrementi retributivi, con un gap rispettivamente di 6,9 e 6,8 punti percentuali in raffronto con l’inflazione.
Di contro, tra i territori in cui si sta contenendo meglio lo scarto, figurano Napoli, che registra Rga in crescita del 3,1% e che, nonostante un aumento dei prezzi in linea con la media nazionale (6,2%), limita la perdita secca di potere d’acquisto al 3,1%. Stesso dato per il Piemonte, dove gli stipendi segnano +2,6% e l’inflazione +5,7%.
«Andando ad analizzare l’effetto sul potere di acquisto su base territoriale – spiega Federico Ferri, partner di JobPricing – sembrerebbe che, con qualche eccezione, le regioni del Sud se la stiano cavando meglio di quelle del Centro e del Nord. Non tanto perché l’inflazione da quelle parti cresca più lentamente che altrove, ma soprattutto perché i salari sembrano crescere più velocemente. Da un po’ di tempo, infatti, principalmente per effetto dei rinnovi contrattuali, che sono uguali per tutti, osserviamo incrementi percentualmente più elevati al Sud. Non si risolve però il problema dei valori assoluti: al Sud le retribuzioni medie rimangono molto basse e le persone che fanno fatica ad arrivare a fine mese sono molte di più. E per queste famiglie, un 3-4% di perdita di potere di acquisto rischia di essere un guaio peggiore di un 5-6% al Nord».
Le (possibili) soluzioni ai bonus aziendali
Il Governo sta cercando di far entrare soldi in busta paga innalzando la soglia esentasse dei fringe benefit – che però vanno solo al 17% dei lavoratori –, da 600 a tremila euro. E con la Manovra punta a dimezzare (al 5%) l’aliquota sui premi di produttività, fino a tremila euro. Tuttavia «Ribaltare l’inflazione in busta paga oggi è semplicemente impossibile – ammonisce Andrea Malacrida, country manager di Adecco – visto quanto è complicato programmare la produzione e l’offerta per i clienti da parte delle imprese. In un fine d’anno con queste incertezze, quale azienda può pensare di alzare i costi del lavoro?».
Le aziende, dal canto loro, annunciano in questi ultimi giorni dell’anno la distribuzione di bonus: Edenred, la società dei ticket restaurant, per esempio, ha staccato a novembre mille euro in welfare aziendale per i dipendenti; il gruppo Gavio ha stanziato un milione per dare 300 euro “contro il caro-vita” ai dipendenti con reddito sotto i cinquantamila euro; Tesya (gruppo attivo a livello internazionale nella fornitura di soluzioni per costruzioni, gestione di cantieri, magazzini e logistica) ha erogato a fine ottobre mille euro come “bonus energia” a 3.300 dipendenti; Eni – forte degli utili record nell’anno del delirio energetico – ha aumentato del 30% il premio di risultato del 2022 e Engie ha stanziato 1.500 euro per ciascuno dei suoi collaboratori nel mondo. E ancora, Coca Cola ha collocato il supporto a 800 euro per 1.700 addetti, Intesa Sanpaolo ha appena aggiunto 500 euro doppiando il bonus staccato a luglio per le sue 70mila persone.
Gli indecisi
Secondo una recente ricerca Aidp, solo il 13% delle aziende ha già deciso quali strumenti attivare, mentre il 47% è indeciso e il 30% non fa nulla. «Ci sono esempi virtuosi, certo – aggiunge Malacrida – Ma restano limitati. L’unica azione sensata è che lo stato sgravi una parte significativa del costo del lavoro, per favorire il lavoratore. Con i bonus e il welfare si addossa quest’onere a manager e aziende: non è la soluzione ottimale». Queste misure immediate vanno bene, ma non possono sostituire le misure strutturali ovvero l’auspicata riduzione del cuneo fiscale, il cui taglio del 2% introdotto dal governo Draghi per i redditi fino a 35mila euro sale al 3% con la Manovra per chi non supera i 20mila euro. Un intervento che aiuta ma che “non è decisivo”, come ha affermato in una intervista alla Stampa il leader degli industriali, Carlo Bonomi.