Nuovi diritti e nuovi modelli per i lavoratori agili
Lavoro da remoto, diritto alla disconnessione, contratti collettivi, privacy, sicurezza. Quali sono i temi più urgenti nell’agenda delle aziende e della PA, quando si tratta di lavoro agile? Quali le aree non ancora protette? A queste domande si è cercato di dare risposta nel corso dell’ultima edizione di Smart Working Day. Per scattare una fotografia di quanto emerso, abbiamo raccolto alcune sollecitazioni da tre dei protagonisti dell’iniziativa: Sergio Alberto Codella, avvocato giuslavorista specializzato in lavoro agile, Marco Carlomagno, Segretario generale FLP – Federazione Lavoratori Pubblici e Funzioni Pubbliche, e Nicola Ladisa, HR & Organization Director della Holding De Agostini.
Ccnl, diritto alla disconnessione, lavoro da remoto, trasparenza, sicurezza. Nel corso dell’ultima edizione di Smart Working Day si è discusso di quali siano i temi più urgenti nell’agenda delle aziende e della PA e degli scenari che si aprono, con lati positivi e criticità. Tre dei protagonisti dell’iniziativa hanno sintetizzato, da osservatori diversi, sollecitazioni e suggerimenti per il presente e il futuro, che traggano frutto dai due anni appena trascorsi, durante i quali si è imposto un nuovo modello organizzativo per esigenze sanitarie che dovrà prendere una forma diversa e più strutturata. I nostri interlocutori sono Sergio Alberto Codella, avvocato giuslavorista specializzato in lavoro agile, Marco Carlomagno, Segretario generale FLP – Federazione Lavoratori Pubblici e Funzioni Pubbliche, e Nicola Ladisa, HR & Organization Director della Holding De Agostini.
Sergio Codella
Giuslavorista, esperto di lavoro agile.
«Oggi ci troviamo in una fase molto diversa da quella di due anni fa e il periodo emergenziale è servito a far capire alle aziende e agli stessi dipendenti che non solo si può lavorare in smart working, ma che si può lavorare anche meglio». Ne è convinto Sergio Alberto Codella, avvocato e giuslavorista, che si occupa dei temi del lavoro agile da tempo.
Avvocato Codella, in futuro ci sarà smart working “incondizionato”?
«Ovviamente, come per tutte le cose, deve esserci una misura. La pandemia ha determinato una sorta di smart working ‘integralista’ e, cioè, un allontanamento radicale dai luoghi tradizionali di lavoro. In un futuro sempre più prossimo, e senza arrivare agli eccessi determinati dalla situazione emergenziale, si potranno definire sistemi evoluti e strutturati di lavoro agile che permettano un punto di equilibrio tra lavoro in ufficio e lavoro smart: i datori avranno la possibilità di migliorare l’organizzazione e di motivare il personale, mentre i dipendenti potranno sentirsi più responsabilizzati e coltivare meglio le proprie esigenze di vita. Tutto ciò trova conferma in alcune analisi da cui è emerso che, nel corso dei primi colloqui assuntivi, soprattutto i giovani sembrano essere interessati alla possibilità di lavorare in smart working».
Ma forse l’entusiasmo non vale per tutti…
«Se c’è una categoria più refrattaria è probabilmente quelle del middle management: di solito l’uomo quarantenne non ha grande attitudine a lavorare e far lavorare da remoto, subendo ancora una visione fordista della organizzazione. Queste figure faticano ancora a delegare e a responsabilizzare le proprie risorse. Credo che le aziende dovranno sforzarsi di modificare questa tendenza costruendo corsi di formazione per aiutare i manager in questo senso. Si tratta di percorsi che molte grandi società hanno già avviato. Peraltro, la “disciplina dell’emergenza” finirà, forse, il 31 marzo e queste stesse aziende si stanno preparando a implementare sistemi smart anche attraverso l’adozione di regolamenti o accordi sindacali, per essere pronte ad adottare nuovi sistemi di sviluppo a seconda delle singole esigenze».
Lo smart working integrale non esisterà più?
«La definizione “normativa” dello smart working, offerta dall’articolo 18 della legge 81 del 2017, esclude la possibilità di immaginare un lavoratore agile al 100% perché il dipendente deve comunque svolgere la propria attività in parte all’interno dell’azienda. Se ad oggi lo smart working al 100% è concesso alla luce della emergenza, terminata quest’ultima si dovrà tornare alla disciplina ordinaria che, quindi, può prevedere un ricorso allo smart working ampio, ma non totale. Questo per più ragioni: ad esempio per il fatto che i diritti sindacali dei lavoratori sono meglio garantiti se c’è una “vita di fabbrica” che offre la possibilità di confrontarsi e di associarsi. Esistono poi anche questioni legate alle assicurazioni sul lavoro e alle competenze giurisdizionali e ispettive; bisogna sempre poter individuare quale sia la sede di lavoro fisica, anche in un contesto aziendale che sia fortemente digitalizzato, tanto è vero che molte aziende, in virtù dello smart working, stanno ridefinendo gli spazi, riducendoli ma anche rendendoli più piacevoli e stimolanti».
Crede che esista il rischio che lo smart working diventi un’opzione solo al femminile?
«Le richieste da parte delle donne sono superiori rispetto a quelle degli uomini, bisognerà lavorare per garantire omogeneità e perchè non si assista a una discriminazione indiretta: insomma, volendo agevolare le persone occorrerà vigilare perché le donne non vengano ‘costrette’ allo smart working. Quanto alla tematica della non discriminazione, ricordo che la legge 81 del 2017 prevede come fondamentale il rispetto di tale principio in tema di lavoro agile; ciò significa che al lavoratore in smart working devono essere garantiti gli stessi diritti del lavoratore tradizionale. In alcuni contesti all’estero si è ritenuto che il lavoratore in smart working – non dovendo sostenere i costi per gli spostamenti – potesse essere pagato di meno, ma ciò in Italia sarebbe considerato illegittimo».
E riguardo al diritto alla disconnessione?
«In questo caso la legge sul lavoro agile appare forse più lacunosa, essendo piuttosto generica. Bisogna però sottolineare che nel protocollo del 9 dicembre 2021 tra Governo e parti sociali si è tentato di dare maggiore specificità a tale diritto, che dovrebbe perlomeno consistere nel divieto di svolgere attività lavorativa in alcune fasce orarie. Alcune aziende si stanno spingendo anche a “bloccare” la posta aziendale oltre un certo orario, proprio per garantire la disconnessione».
Cosa accadrà ai ticket restaurant?
«Anche questo è un argomento molto discusso e quasi tutte le aziende per adesso li garantiscono. Tuttavia ci sono state alcune pronunce di merito che, in materia di pubblico impiego, hanno specificato che per i lavoratori agili non è dovuto il ticket restaurant perché non fa parte della retribuzione in senso stretto. Forti di questa giurisprudenza molte aziende hanno stabilito che chi lavora in smart working non ha diritto a chiederli. Poi, attraverso alcuni protocolli, sono stati avanzati dei chiarimenti, ma resta una zona grigia».
E per ciò che riguarda le postazioni da remoto, l’ergonomia, le connessioni?
«Innanzitutto dobbiamo ricordare che lo smart working differisce dal telelavoro, che è lavoro esclusivamente da casa e che poco successo ha avuto in Italia proprio perché la normativa prevede che il datore di lavoro arrivi a garantire un ambiente di lavoro sicuro all’interno delle mura domestiche. Lo smart working, invece, si fonda sul principio di responsabilità: il datore di lavoro è tenuto a fornire tutte le informazioni e la formazione utile per spiegare al dipendente qual è il posto di lavoro che deve scegliere, salubre e sicuro, ma è poi responsabilità del dipendente seguire tali indicazioni».
Qual è, a suo avviso, quindi, la maggiore criticità?
«La grande sfida è quella che riguarda i manager abituati a una organizzazione verticale, che devono modificare il loro ruolo alla luce di un’organizzazione orizzontale, esercitandosi a delegare e responsabilizzare sempre di più».
Marco Carlomagno (Flp)
Segretario generale FLP – Federazione lavoratori pubblici e funzioni pubbliche.
«Tendiamo ancora a non comprendere la differenza tra lavoro da remoto e lavoro agile o smart working e continuiamo a pensare che il controllo sia leva per la produttività: la pandemia e i nuovi modelli organizzativi sperimentati nelle PA dimostrano chiaramente che non è così». Questa la riflessione di Marco Carlomagno, Segretario generale FLP – Federazione lavoratori pubblici e funzioni pubbliche, che, mentre ragiona sul lavoro agile nella pubblica amministrazione, pensa al modello adottato da Ducati nel 2017: «È uno dei modelli migliori di lavoro agile basato su autonomia e fiducia nell’organizzazione dei turni e nella produzione: così sono aumentati gli utili del 40%; questo accade quando si ragiona in termini di benessere organizzativo».
Carlomagno, cosa intende?
«Intendo dire che il benessere organizzativo non dovrebbe essere considerato in termini assistenzialistici, ma come valore per aumentare la produttività, l’engagement».
Durante il primo lockdown lo smart working è stato prevalentemente lavoro da casa. Cosa è cambiato, per lei?
«Vivendo nelle pubbliche amministrazioni posso portare l’esempio di alcune sperimentazioni. Le amministrazioni che si erano organizzate per lavorare su obiettivi anche prima della pandemia non solo hanno mantenuto tutte le forniture di servizi, ma le hanno incrementate notevolmente».
Può fare un esempio?
«L’agenzia delle Entrate durante la pandemia si è trasformata in agenzia del “dare” e non solo del “prendere”, visto che ha erogato bonus: si sono mantenuti tutti i servizi, incrementandoli. In 21 giorni sono stati forniti VPN, software per la protezione dei dati e successivamente anche computer portatili al personale. Purtroppo altre amministrazioni erano ancora orientate all’adempimento burocratico. Un esempio eclatante: al Ministero di Grazia e giustizia gli avvocati potevano depositare gli atti in modo telematico ma i cancellieri non potevano accedere ai server. Io credo che ci si debba chiedere qual è il motivo per cui un cittadino si deve recare in un ufficio pubblico. Non credo per l’entusiasmo di fare la fila… Andare in fila agli sportelli significa esclusivamente portare carte per ottenere un servizio. Ritengo che il cittadino debba poter mandare un’email a seguito della quale, entro due/tre giorni a seconda della complessità, possa ricevere una risposta. Questo perché i dati del cittadino sono già in possesso di altre pubbliche amministrazioni e devono essere acquisiti dalla PA a cui si fa richiesta del servizio».
Vale anche per i certificati?
«Certo. Perché deve essere il cittadino a produrre il proprio certificato di nascita o di matrimonio quando la PA ne è già in possesso?».
Questa semplificazione è, quindi, per lei il lavoro agile…
«Si tratta proprio di un diverso modello basato sugli obiettivi da raggiungere, sui risultati. E, alla base di tutto, deve esserci l’articolo 98 della Costituzione, che è molto chiaro nell’esplicitare che gli impiegati pubblici sono al servizio esclusivo della nazione, non delle singole PA. Si deve lavorare al servizio della vita dei cittadini e delle imprese: il lavoro dell’impiegato pubblico è smart, ovvero intelligente, nella misura in cui si preoccupa di come risolvere i problemi dei cittadini. Se per iscriversi all’Università è necessario l’Isee, l’Isee dovrebbe essere immediatamente disponibile, senza servizi di intermediazione, utilizzando lo Spid. Il lavoro agile, in sostanza, comporta per forza un cambiamento radicale sia nel sistema pubblico che in quello privato. Deve rimettere al centro le persone sia come lavoratori che come cittadini, migliorando la qualità della vita. Non si può più avere a che fare con un sistema di stampo feudale al cui vertice sta il dirigente e sotto vassalli e valvassori. Non solo: la PA deve essere proattiva e prevenire i bisogni e magari tentare di rispondere in questo modo anche al calo di natalità che affligge il Paese».
Sono aspetti collegati a suo avviso?
«Come fanno i genitori a fare i genitori quando i ruoli nelle famiglie sono squilibrati a sfavore delle donne, dove i padri sono tali per quindici minuti al giorno? È insensato sostenere che sia necessario mettere donne ai vertici quando si fanno riunioni inutili a orari impossibili, inconciliabili con la vita familiare. I presupposti del lavoro agile sono autonomia e fiducia; così ci si orienta verso un benessere organizzativo che porta anche maggiore produttività. All’estero è già così in molti posti, peccato poi che le multinazionali, quando arrivano in Italia, si adeguino alle abitudini sbagliate del luogo…».
E perché accade?
«Perché esistono una serie di micro-manager che ancora insistono con il controllo ossessivo: non sono veri leader, perché il leader non controlla, ma coinvolge, ingaggia, non ha dipendenti, ma collaboratori. Occorre, anche mediaticamente, diffondere modelli organizzativi nuovi».
Come si può intervenire nella semplificazione, nella pratica?
«Bisogna lavorare su quattro step, come si è già fatto in alcune Regioni in sperimentazione. Se un cittadino ha bisogno di documenti, deve poterli scaricare. Se non funziona questo passaggio può scrivere un’email e farne richiesta, ma potrebbe inviare anche un messaggio whatsapp, telegram: si tratta di dati crittografati che non scatenano problemi sul fronte della privacy. Se non funziona questo canale si passa alla chiamata, si può prendere un appuntamento telefonico o via call o in ultima analisi in presenza. Ecco che già in questo modo si è abbattuta la necessità di recarsi nell’ufficio competente e si viene indirizzati verso il funzionario che dovrà lavorare quella determinata pratica. In questo modo si garantisce la trasparenza e si esclude l’eventualità di favorire un cittadino piuttosto che un altro. È chiaro che tutta questa trasformazione necessita di formazione e valorizzazione dei dipendenti».
È un tassello che manca?
«Non si può pensare che chi si è formato anni fa – facciamo un’ipotesi, in informatica – smetta di aggiornarsi, perché nel frattempo il mondo è cambiato. Occorre costruire un sistema valoriale che si basi su competenze che vanno oltre gli studi compiuti. Innovazione digitale non significa saper usare il computer ma lavorare seguendo nuovi processi».
I dati sul lavoro agile nella PA cosa dicono?
«Sia quelli del Politecnico di Milano che quelli dell’Università Federico II dicono che l’Inps ha aumentato del 32% la propria produttività, ad esempio, e che anche nelle amministrazioni in cui il modello organizzativo non è ancora del tutto cambiato – e ci si è quindi “autogestiti” – l’incremento è stato del 7%».
Come si affronta il tema della disconnessione?
«In questo caso la legge può aiutare, sanzionando comportamenti illegittimi nei confronti del lavoratore, che non può essere disturbato il sabato o la domenica. Il diritto alla disconnessione deve essere tutelato anche mutuando modelli già in atto in alcune grandi aziende, a seconda delle proprie esigenze. Inoltre è importante che il lavoratore agile non sia penalizzato rispetto al dipendente che lavora in presenza o da remoto. Le linee di indirizzo proposte dal Ministro Brunetta – che tendeva a differenziare sostenendo che al lavoratore agile dovesse essere garantito solo lo stipendio e non altri benefit – si basa ancora una volta su una concezione alla cui base sta il controllo».
Nicola Ladisa
HR & Organization Director della Holding De Agostini.
«Credo sia necessario equilibrio nel considerare lo smart working come nuovo modello organizzativo: abbiamo imparato molto, ma non dobbiamo dimenticare che le relazioni sono importanti». Nicola Ladisa, HR & Organization Director della Holding De Agostini, riflette sul lavoro agile, su ciò che ha insegnato durante il lockdown e su ciò che è importante che resti per il futuro, quando si sarà usciti del tutto dall’emergenza pandemica.
Ingegnere Ladisa, durante la prima chiusura lo smart working ha permesso di continuare a lavorare; per tanti è stato una novità, per altri ha significato mettere in pratica qualcosa che si stava sperimentando. Cosa vede dal suo osservatorio per i mesi e gli anni a venire?
«La terribile pandemia ha avuto come risvolto positivo questo grande insegnamento, ma credo che oggi sia il momento di ragionare su come intendere lo smart working: continuare sì, ma con cautela. Noi non avevamo programmi di smart working: non era nella nostra storia e nella nostra cultura e non ne sentivamo neanche una particolare esigenza, come invece già avvertivano altre realtà aziendali, che avevano necessità di intervenire sui costi degli spazi occupati come uffici. In De Agostini non si è mai pensato di ridurre gli spazi né nell’area novarese né in quella milanese. Lo smart working forzato – o lavoro agile o ibrido, come preferisco chiamarlo – è stato quindi un’opportunità da un punto di vista di cambiamento culturale e di mindset: il fulcro di un’organizzazione basata sullo smart working è nel lavorare per obiettivi e non per task. Con lo smart working si è superata l’ansia del capo di dover per forza avere tutte le persone presenti in ufficio, fisicamente vicini. In seguito, consapevoli del fatto che l’attività lavorativa è proseguita anche in questa modalità, abbiamo deciso di mantenere il sistema di smart working non più come progetto pilota, come risposta a una situazione pandemica, ma su base sistematica.
Credo sia un bene che siano arrivate le indicazioni dal nostro Ministero di riferimento, che siano state concordate normative a livello anche nazionale e con i sindacati. Oggi abbiamo un frame di lavoro all’interno del quale ci si può muovere a seconda della propria realtà».
Qual è la formula giusta per voi?
«Stiamo ragionando su uno o due giorni di smart working a settimana, a seconda delle caratteristiche dei nostri business e delle nostre realtà, perché una cosa è parlare del mondo editoriale, altra del settore dei financial services, altra ancora di ciò che riguarda la holding. Al di là della situazione pandemica contingente – dove lo smart working è evidentemente una grande risorsa – stiamo valutando uno o due giorni di lavoro agile a settimana, perché per noi è importante anche essere in ufficio per recuperare la relazione, per aiutare l’inclusività, per lavorare insieme sui progetti. È vero che anche da remoto si possono svolgere progetti, ma viene un po’ a mancare la parte motivazionale, ciò che nasce dallo stare insieme e che è senz’altro tipico di un modello italiano forte e radicato nel nostro modo di essere e di “stare insieme”. Ma parallelamente stiamo pensando a modalità che rendano lo stare in ufficio più piacevole».
Come?
«Credo che i contesti stessi debbano e possano essere più attrattivi, sotto vari punti di vista. Se prendiamo come esempio gli spazi-uffici di co-working già presenti in alcune città ci accorgiamo che sono luoghi luminosi, caratterizzati dalla fruibilità di aree comuni, dove è possibile fare una pausa in condivisione, dialogando con le persone, anche di realtà diverse. Sono centri di “contaminazione di idee”. Immagino uffici dove le persone la mattina abbiano sempre più voglia di andare perché è piacevole trascorrervi il proprio tempo. Ma l’aspetto relazionale va recuperato anche sotto altri punti di vista».
A cosa si riferisce?
«Mi riferisco alle nuove abilità, al networking, ad esempio: quando non si può essere insieme fisicamente si può attivare una collaborazione interfunzionale tale per cui deve diventare un’abitudine alternarsi tra presenza e remoto, sempre in linea con l’idea che si debba lavorare per obiettivi e non per task».
Esiste anche un tema generazionale. I giovani che si affacciano al mondo del lavoro tendenzialmente chiedono flessibilità e lo smart working diventa un’esigenza, uno strumento sulla base del quale scelgono anche il posto di lavoro. È così per lei?
«È vero che i millennials chiedono già in fase di selezione la flessibilità. Credo che sia importante non negarla. I millennials oggi sono circa il 15% della forza lavoro e tra qualche anno saranno il 50%; poi entreranno persone oggi ancora più giovani. Penso tuttavia che sia importante che questi giovani capiscano che un cambiamento culturale in azienda avviene nel tempo».
Forse, pur rispondendo a una giusta esigenza, è importante trasmettere l’idea che anche nello stare insieme avviene la crescita, individuale e professionale…
«Pensiamo all’on boarding: senza passare mai per l’azienda, come ci si connette con quella realtà? Ecco: il messaggio che vorrei dare è senz’altro di spinta verso lo smart working – è impensabile tornare a modelli passati – ma senza eccedere. Quindi, non lo si offre ai giovani solo perché lo “pretendono”, così come non può essere una panacea per la perdita di tempo nel commuting giornaliero, anche perché – in un tessuto come quello italiano – il tema del lungo tempo impiegato per andare al lavoro riguarda solo le grandi città. Tante sono le realtà industriali che non gravitano nelle grandi aree metropolitane. Credo che la chiave stia nel recuperare un giusto bilanciamento sulla base dei propri modelli di business, dei processi aziendali e della cultura del Paese e della propria azienda. Mi pare, inoltre, che il legislatore si sia mosso bene. Che si sia anche lasciato spazio alle varie declinazioni aziendali».
La Ministra Elena Bonetti ha commissionato uno studio sullo smart working ‘anche’ come strumento per combattere la denatalità che nel 2050 sarà altissima, se non si farà nulla per contrastarla. Sempre che non diventi una soluzione solo per le donne. Cosa ne pensa?
«Credo che le ragioni della denatalità siano da ricondurre a un ambito sociale più ampio, a un contesto economico-finanziario, e che nelle radici del problema si trovino più soluzioni che nelle leve di tipo giuridico o lavoristico».
Potrebbe, comunque, diventare qualcosa di destinato solo alle donne?
«Qui entriamo nel campo della diversity e dell’inclusion. Il nostro Paese è ancora contraddistinto da una cultura secondo la quale, nel caso in cui una coppia si trovi a dover scegliere chi dei due lavora e chi sta a casa, è ancora molto difficile che siano gli uomini a rinunciare al lavoro. Certamente dovrà finalmente innescarsi un processo culturale più ampio perché avvengano cambiamenti simili».
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