Non è un paese per giovani, l’occupazione in crisi per il calo demografico

Perché a fronte di un forte rimbalzo dell’attività produttiva le imprese faticano a trovare i lavoratori necessari? Il tasso di occupazione (su base mensile) tra 15 e 64 anni è tornato ai livelli pre-Covid, ma il numero di occupati in questa fascia di età è diminuito di 307.000 unità. Il motivo è il calo della popolazione italiana in età lavorativa, dovuto principalmente al saldo negativo tra le persone che compiono 15 anni e quelle che ne compiono 65. Ma non solo.

paese per giovani

Tra le variabili che influenzano e modificano le dinamiche del mercato del lavoro, la demografia acquisisce un ruolo sempre più rilevante: se, infatti, a dicembre 2021, prendendo in considerazione la fascia d’età 15-64 anni, si è registrato un ritorno a tassi d’occupazione – su base mensile – pari al periodo prepandemico, il numero degli occupati risulta in realtà sensibilmente più basso; a causare il gap tra i due dati è la diminuzione, di oltre cinquecentomila unità, degli individui in età lavorativa. Mentre, infatti, per i baby-boomer – ovvero i nati negli anni ‘50 e ‘60 – si avvicina il traguardo della pensione, i nati negli ultimi decenni riescono solo parzialmente a prenderne numericamente il posto. Secondo i dati Istat, tra dicembre 2020 e lo stesso mese del 2021 sono 532.000 i nuovi posti di lavoro creati tra la popolazione in età lavorativa, ma il numero di occupati è invece diminuito di 307.000 unità.

A causare il divario – che secondo le proiezioni è destinato ancora ad aumentare – intervengono diversi fattori, primo fra tutti il calo drastico delle nascite in Italia negli ultimi cinquant’anni (siamo passati dalle 900.000 nascite dei primi anni ‘70 alle 400.000 nascite scarse del 2021): non solo il saldo attuale tra le persone che compiono15 anni e quelle che ne compiono 65 è negativo, ma fa registrare una decrescita della popolazione lavorativa di ben 543.000 unità.

Accanto alla diminuzione della natalità, anche il rallentamento dei flussi migratori in entrata – dovuto in parte alla pandemia ma iniziato già negli anni precedenti, a causa delle diverse crisi economico-finanziarie che si sono susseguite – ha contribuito al calo della popolazione in età lavorativa (secondo l’elaborazione dei dati Istat fatta dall’Osservatorio conti pubblici italiani, già nel 2012 si poteva registrare una certa flessione della popolazione lavorativa causata dalla diminuzione del fenomeno migratorio). Proprio il saldo migratorio positivo, insieme a un aumento della partecipazione al mondo del lavoro avevano consentito, nella società pre-pandemia, di tamponare il divario tra le persone che entravano e uscivano nella fascia d’età lavorativa.

Risulta invece marginale, tra i fattori di diminuzione della popolazione lavorativa, il surplus di mortalità provocato dalla pandemia: il considerevole aumento generale dei decessi – direttamente e indirettamente legati al Covid-19 – ha interessato soprattutto le persone più anziane, mentre è stato contenuto nella fascia di età 15-64 anni; secondo i dati, infatti, se nel quadriennio 2015-2019 le morti sono state in media 69.400 all’anno, nel 2020 si sono attestate sulle 73.500 unità (+4.100) e anche nel 2021 il valore è analogo. Lasciando per un momento da parte il Covid e considerando invece il progressivo allungamento della vita media, a parziale compensazione dei dati negativi, c’è fortunatamente proprio la diminuzione delle morti nella fascia d’età lavorativa 15-64 anni: si è passati infatti dalle 111.000 unità del 1992 alle 66.000 del 2019.

Infine, un ultimo elemento concorre al segno meno davanti alla popolazione in età lavorativa: l’aumento degli inattivi, ovvero di coloro che non lavorano e non cercano lavoro pur essendo nella giusta fascia d’età, di circa 10.000 unità: a fronte infatti di un calo della popolazione lavorativa di 543.000 persone, la forza lavoro – ovvero la somma tra occupati e disoccupati – è diminuita di 553.000 individui.

Ancora un paio di dati sono tuttavia degni di nota: l’attuale tasso di occupazione sia delle donne, sia della fascia d’età più giovane – 15-34 anni – ha addirittura superato quello dell’era pre-Covid: 50,5% contro 50,1% per la sfera femminile e 42,5% versus 41,7% per i lavoratori più giovani.

In definitiva, dunque, se il mercato del lavoro non può più prescindere dalle dinamiche demografiche e dall’analisi delle variabili che influenzano la società, sarà fondamentale incentivare da un lato una maggiore partecipazione al mondo lavorativo – in particolare delle donne (nel 2020 il gap era quasi del 20%, con un tasso di partecipazione maschile del 73,5% e femminile del 54,7%) e della crescente sacca di inattivi – e dall’altro un’immigrazione regolare, possibilmente superiore a quella registrata nel primo ventennio del XXI secolo e con un curriculum lavorativo specializzato e professionale; proprio i flussi migratori avranno un ruolo cruciale e, secondo lo scenario mediano prospettato dall’Istat, il saldo tra entranti e uscenti dovrebbe attestarsi sulle 130.000 unità di media per i prossimi trent’anni, tuttavia con un’oscillazione importante, tra le 200.000 e le 50.000 unità.

Bisognerà invece aspettare il 2040 per veder crescere il saldo demografico: si inizieranno infatti a vedere gli effetti della diminuzione della natalità degli anni ‘70, che si rifletterà in un minor numero di over 65.

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