«Merito e competenze dovrebbero determinare chi è leader, senza differenze di genere»
Alessandra Preve, Marina Carbonaro e Valentina Astori di Arriva Italia riflettono sul concetto di leadership al femminile: «Empatia, attenzione alle persone e tensione verso gli obiettivi sono caratteristiche vincenti per cui le donne fanno la differenza»
«In un mondo giusto e moderno non dovrebbero neanche essere necessarie le quote rosa, ogni persona dovrebbe essere giudicata solo in base a merito e competenze».
Con Alessandra Preve, responsabile area Customer Care Arriva Italia, Marina Carbonaro responsabile area Amministrazione Arriva Italia, e Valentina Astori, direttore Area Operations Arriva Italia, abbiamo parlato di leadership al femminile, di quote rosa, di linguaggio e dello stato dell’arte del mondo del lavoro in Italia, rispetto alla questione femminile. Oltre tutto in un settore come quello ferrotranviere in cui opera Arriva, con i suoi circa 60 mila dipendenti e un volume di passeggeri trasportati che supera i due miliardi annui per un totale di 14 paesi europei.
Esiste una leadership al femminile?
Valentina Astori: Credo che si tratti di un’opinione molto soggettiva, ma dal mio punto di vista certamente un uomo esprime la propria leadership in modo molto diverso dalla donna. Differenze di base esistono e, a mio parere, la caratteristica che risulta più evidente nelle donne è l’essere, nel loro stile di leadership, molto orientate al risultato e agli obiettivi che vengono posti: gli obiettivi vengono messi al centro dell’attenzione, indipendente da se stesse; l’uomo, al contrario, pur arrivando al risultato – perché parliamo sempre di leader – pone se stesso al centro dell’attenzione. La donna è più incline a “spersonificarsi”.
Marina Carbonaro: Credo che innanzi tutto le donne abbiano una visione più olistica dell’azienda. Si centrano su un obiettivo che poi viene perseguito ponendo l’attenzione sulle persone, sul loro benessere; questo atteggiamento porta con sé una maggiore produttività. La miglior manager è la mamma, per me, o comunque una donna con queste caratteristiche: per istinto è più attenta a guardare a chi ha attorno. Dalla famiglia all’azienda il risultato non cambia. Poi è evidente che siamo innanzi tutto degli esseri umani e come tali dobbiamo essere giudicati e osservati, a prescindere dal genere, ma se dobbiamo guardare i grandi numeri, allora emerge che le donne sono focalizzate più sugli obiettivi.
Alessandra Preve: In questo momento storico le caratteristiche più femminili stanno finalmente assumendo valore. Una di queste è l’empatia, che di certo in passato non poteva essere considerata come una caratteristica distintiva del leader uomo: l’idea di leadership diffusa fino a qualche tempo fa non comprendeva l’empatia. Invece questa caratteristica fa sì che si mettano le persone al centro, motivandole. Se il modello di leadership precedente era caratterizzato dall’essere perentori, oggi la skill vincente sta nel mettersi all’ascolto. Ciò non significa non essere decisionisti. Ma significa che le decisioni vengono prese in mood più collettivo, tenendo conto delle diversità. Credo che questo sia il grande valore che definisce una leadership al femminile e che deve diventare uno stile diffuso.
L’ingresso più massiccio delle donne nelle aziende, dal vostro punto di vista, è servito a modificare il modello di leadership? O è stato piuttosto l’intervento del legislatore?
Alessandra Preve: Direi di sì: un aumento di donne nei ruoli di potere ha portato un diverso punto di vista. Le donne forse, arrivando nel mondo del lavoro, hanno portato con sé una modalità culturale, importante anche in ambito professionale. Essendo abituate a gestire più situazioni, legate anche alla cura della famiglia, conservano dentro di sé questa inclinazione. Il senso della cura, in questo modo, arriva nel mondo del lavoro.
Valentina Astori: Credo l’ingresso delle donne abbia creato un impatto, ma purtroppo non è così visibile. Non vedo neanche un aumento del numero di donne nei ruoli di leadership. Mi pare che siamo ancora indietro…
Marina Carbonaro: L’assunto – a mio avviso – è che è assurdo, di per sé, che sia necessaria una legge per permettere alle donne di ricoprire ruoli apicali. Perché poi può accadere, come alcuni colleghi uomini mi hanno fatto notare, che per forza la legge diventi iniqua, agendo su un numero di donne non ancora rappresentativo. Il problema è a monte: dobbiamo chiederci perché il numero delle donne è ancora così basso. Noi siamo state fortunate; abbiamo avuto un percorso professionale che ha valorizzato le nostre competenze. Ma non tutte le donne hanno la stessa fortuna, altrimenti non saremmo qui a parlare di questo argomento… Le donne dovrebbero avere la stessa opportunità di crescere degli uomini, ma oggi non è ancora così. Ed è per questo che a molti la legge in sé appare come una forzatura.
E allora cosa serve per cambiare direzione? Il linguaggio può aiutare?
Alessandra Preve: La leadership femminile esiste ma non è così diffusa, per quanto venga riconosciuta come valore, in teoria. Ma la pratica è un’altra cosa e bisogna capire quanto sia possibile svincolarsi da stereotipi. Allora forse una legge è uno strumento. Secondo me ciò che vale davvero sono meritocrazia e talento, elementi su cui ancora di rado le donne sono giudicate. Le quote rosa sono fatte in modo tale per cui può capitare che vengano premiate figure meritevoli, ma anche no… In ogni caso, indubbiamente, si tratta di uno strumento che indica una direzione, e che per questo motivo serve. Essendo le donne in minor quota in generale, senza applicare una regola che metta vincoli, le brave sarebbero sempre più discriminate. Per ciò che riguarda l’uso del linguaggio, a me personalmente disturba, se devo essere sincera, l’utilizzo di parole come “ministra” o “sindaca”. O per lo meno si tratta di una sfaccettatura di cui potrei fare a meno. Per me si può anche continuare a dire “sindaco” o “ministro” perché comunque si parla di un ruolo: sono parole che mi appaiono quasi neutre. Però anche questo, forse, può essere uno strumento utile per raggiungere l’obiettivo.
Valentina Astori: È necessario un cambio culturale che parta dalla scuola e arrivi all’università. Siamo veramente molto indietro; le quote rosa non dovrebbero neanche esistere, ma in questo momento sono necessarie. Il punto è che i centri di potere sono in mano a persone che non credono alla necessità del cambiamento e quindi neanche alle quote rosa. Succede, addirittura, che le quote rosa vengano usate per ottenere l’effetto contrario: ovvero si mette volutamente a ricoprire un certo ruolo una persona che non è capace, usata come testa di legno per avere un ritorno negativo. Mi è capitato davvero – soprattutto in aziende pubbliche o in alcuni Cda in cui vige il vincolo delle quote rosa – di trovare donne senza competenze a ricoprire certi ruoli perché fa comodo… Per questo dico che è necessario un cambio culturale, da associare eventualmente all’uso del linguaggio, per raggiungere lo scopo. A me sorprende che le cose non siano tutto sommato cambiate in modo evidente da quando mi sono laureata, 25 anni fa circa, alla facoltà di Ingegneria. Ero davvero convinta che le donne fossero aumentate e invece, proprio recentemente, abbiamo aderito a un progetto del Politecnico di Milano e il main sponsor si è congratulato con me per il fatto che fossi una donna e anche ingegnere. Mi ha detto che sono ancora pochissime, una percentuale molto bassa. Se nel 2021 siamo ancora a dire che le quote femminili sono scarse nelle facoltà a stampo tecnico-scientifico, pur essendo estremamente portate, davvero significa che siamo indietro.
Oggi la cultura umanistica, in certi studi, pare tornata in auge anche per accedere a ruoli apicali in azienda… Cosa ne pensate?
Valentina Astori: Mi sembra un concetto molto romantico… Tuttavia, credo che se una persona ha una cultura umanistica propria, personale, la differenza si veda. Quando mi capita di incontrare queste persone le riconosco facilmente. Penso, però, che un laureato in materie umanistiche che volesse ricoprire certi ruoli in aziende, dovrebbe anche compensare la mancanza di competenze tecniche. Soprattutto nel nostro settore, il ferrotranviario, che è molto specifico.
Come sono i giovani, oggi? Notate un approccio diverso al mondo del lavoro?
Valentina Astori: Devo dire che, in generale, li vedo un po’ più “deboli”, meno strutturati, meno grintosi, sia maschi che femmine. Noi forse siamo stati più spinti lungo la strada dell’umiltà e quindi ci siamo affacciati al mondo del lavoro con una grinta maggiore, con maggiori aspettative. Ma, aggiungerei che ai giovani di oggi abbiamo posto davanti un mondo che per certi aspetti è molto incerto, e così, forse, lo sono anche loro.
Alessandra Preve: Anche a me appaiono meno abituati a lottare, una volta arrivati in un posto; d’altro canto, però, sono più pronti al cambiamento, alla flessibilità, all’innovazione. Sul fronte della diversità, ad esempio, c’è da dire che sono nati in un’epoca in cui il cambio culturale era già un po’ avviato – sebbene non maturo – e quindi forse sono meno vincolati a certi retaggi culturali. Ma anche meno tenaci.
L’essere flessibili forse li pone in una condizione in cui si mettono meno in gioco…
Marina Carbonaro: Io credo che siano anche un po’ figli del benessere, non hanno fame e quindi non hanno troppa voglia di fare, di arrivare. I più giovani ancora di più: se crescono nella bambagia è difficile per loro venirne fuori. Io stessa, da madre di un diciasettenne, trovo che sia stato più facile educare me che educare mio figlio. Io mi sono dovuta davvero arrangiare. Lui vive in un contesto molto diverso dal mio. Il mio sforzo è quello di metterlo nella condizione di dover fare, di essere grintoso.
Quindi, tornando al tema delle caratteristiche importanti per una leadership, probabilmente l’empatia diventa ancora più importante nei confronti delle nuove leve…
Marina Carbonaro: Sì, sono convinta che empatia e buon esempio siano due elementi basilari per una leadership: le persone ti osservano, ti guardano, e se tu sei coerente, sei empatico e dai il buon esempio loro ti seguiranno, e anche con passione.