Le donne dirigenti in Italia sono in aumento, ma non basta
Essere donne e arrivare al top delle organizzazioni sembra essere ancora una contraddizione in termini. Antichi ostacoli comprometterebbero la possibilità di una affermazione alla pari con i colleghi uomini, che a ben guardare devono comunque a loro volta fare i conti con la difficoltà di conciliare vita privata e vita lavorativa
Le richieste di performance eccellenti premono infatti sulla possibilità reale di avere un equilibrio che in realtà, se garantito, è a sua volta una leva importante per poter dare il meglio anche sul luogo di lavoro.
I dati, che si riferiscono al 2014, ci dicono che appena il 15,1% delle posizioni dirigenziali sono occupate da donne e non molto meglio va nelle posizioni di quadri, dove la presenza femminile si attestava allora al 28,5 %.
Ci dicono anche che le cose stanno effettivamente migliorando, sebbene con una progressione ancora lenta, che vede distante il pareggio: dal 2010 al 2014 c’è stato un incremento del 12,9% tra le donne in posizioni dirigenziali e dell’11,3% in quelle di quadri.
L’anno scorso l’istituto Quadrifor aveva presentato uno studio durante il convegno “Middle Management al Femminile. Tra Knowledge e Identità” e restituiva una fotografia, relativa a queste posizioni, che metteva ancora in evidenza le disparità a fronte di qualità che le donne possiedono, in generale, e che farebbe di loro delle ottime candidate alla posizioni sia dirigenziali che di middle management.
Basti pensare al maggior livello di istruzione e alla propensione al cambiamento e all’innovazione che sembra essere particolarmente diffusa tra le donne e che invece viene spesso sottoutilizzata.
Le donne sembrano essere “lasciate sole”, come afferma il presidente dell’istituto, Paolo Andreani, sia in azienda, sia in famiglia dove il tempo-lavoro che dedicano è di gran lunga superiore a quello elargito dagli uomini. Il rapporto “Society at a glance”, la rilevazione biennale di OECD, Organisation for Economic Co- operation and Development, che fornisce dati comparabili a livello internazionali tra l’altro, sulla demografia e le caratteristiche della famiglia mette in evidenza che, rispetto ad un paese come la Norvegia, dove gli uomini hanno a disposizione 5 minuti di tempo libero in più delle donne, l’Italia ha un divario ancora importante: ben un’ora e mezza.
Chiara Lupi, direttore editoriale di Este, descrive bene questa situazione nel suo libro “Ci vorrebbe una moglie” in cui racconta con un pizzico di ironia, gli ostacoli con cui lei stessa si è dovuta cimentare per affermarsi professionalmente, tenendo a bada famiglia, figli e altre incombenze che sembra quasi scontato siano di pertinenza del “gentil sesso”. Ma non è così ovunque visto che, ad esempio, nel mondo anglosassone è in crescita il fenomeno dei maschi casalinghi, gli SAHD, stay at home dad, e questi sono addirittura 200.000 con una tendenza alla crescita.
In Italia, al contrario i congedi parentali richiesti dagli uomini, stentano a crescere in virtù del fatto che allontanarsi dal luogo di lavoro diventa penalizzante per chi ha aspirazioni di carriera.
Sembrerebbe quindi che per affermarsi, continua Chiara Lupi, se si vuole al tempo stesso avere una famiglia, sia necessario sposare una maschio che non abbia ambizioni di carriera, quindi non un maschio alfa. Diversamente le possibilità di successo in un campo e nell’altro sembrano irrimediabilmente compromesso e le storie personali di tante professioniste lo dimostrerebbero.
Gli ostacoli ovviamente non sono solo questi. Si avverte il rischio di un neomaschilismo aziendale in cui nei fatti le donne sono penalizzate e si autopenalizzano in forza di un pregiudizio ancora difficile da sfatare, che ritiene il “comando” connaturato al maschile.
Quindi è anche della donne il compito di spingere verso il cambiamento, partendo come dice Monica D’Ascenzo, giornalista del Sole24Ore e autrice di “Fatti più il là. Donne al vertice delle aziende: le quote rosa nei CDA”, dalla formazione, autorizzandosi a pretendere il giusto riconoscimento, adottando stili di gestione che portino orgogliosamente la differenza data dal proprio genere, chiedendo il giusto riconoscimento e restituendo al sistema e alle colleghe donne quelle stesse possibilità che si richiedono per se.