Consulta e nuove modifiche: un bilancio a tre anni dal Jobs Act
TAVOLA ROTONDA | Tre esperti riflettono su come è cambiato il mercato del lavoro a tre anni dalla riforma, ma la normativa non è ancora definita: la Corte Costituzionale ha bocciato i criteri di determinazione dell’indennità per i licenziamenti senza giusta causa. E il Governo potrebbe intervenire
Ancora non si può mettere un punto fermo sul Jobs Act – la legge che tre anni fa riformava il Diritto del lavoro in Italia – visto che la normativa è tuttora in evoluzione.
È di pochi giorni fa la notizia della bocciatura, da parte della Corte Costituzionale, della parte del contratto a tutele crescenti che prevede criteri rigidi di determinazione per l’indennità di licenziamento senza causa (al posto della reintegra prevista dall’articolo 18). Per la Consulta, l’indennità non può essere determinata solo in base all’anzianità di servizio, poiché farlo violerebbe i principi di ragionevolezza e uguaglianza.
C’è poi, ulteriormente, da valutare l’intenzione del Governo di rivedere le norme, anche rimettendo mano all’articolo 18: molti esponenti di punta dell’attuale esecutivo si sono sempre dichiarati contrari all’abolizione della reintegra e alla totale monetizzazione dei licenziamenti ingiustificati. Proprio l’abolizione dell’articolo 18, del resto, è stato il tema più dibattuto della riforma.
Jobs act: un bilancio a tre anni dall’entrata in vigore
Come è cambiato il mercato del lavoro con l’introduzione del Jobs Act? Lo abbiamo chiesto a tre esperti in grado di darci punti di vista diversi e fare un primo bilancio sulla riforma
A marzo 2015 entrava in vigore il Jobs Act, la legge che ha riformato il Diritto del lavoro in Italia, superando lo Statuto dei lavoratori. Dopo tre anni è possibile fare un primo bilancio degli effetti che ha avuto sul mercato del lavoro in termini di aumento dell’occupazione, incidenza dei diversi tipi di contratti e numero di licenziamenti. Infatti, una delle novità più controverse e dibattute della riforma è stata l’abolizione dell’articolo 18. Una norma che secondo le imprese aveva il difetto di rendere troppo rigidi i rapporti di lavoro a tempo indeterminato, frenando di fatto le assunzioni, e che secondo i sindacati rappresentava invece una tutela per i lavoratori in caso di licenziamenti illegittimi.
Cosa è cambiato dunque in questi tre anni?
Lo abbiamo chiesto a tre esperti in grado di darci tre punti di vista diversi sulla legge
Francesco Seghezzi
Direttore Fondazione Adapt e Ricercatore presso il Dipartimento di Economia “Marco Biagi” all’Università di Modena e Reggio Emilia
Dottor Seghezzi, dopo tre anni è possibile esprimere un giudizio sul Jobs Act: promosso o bocciato?
“Dare un giudizio così netto non è facile, perché si tratta di una normativa molto complicata ed eterogenea che comprende al suo interno tante leggi e tanti decreti. Per di più il Jobs Act è stato accompagnato dagli incentivi fiscali per le assunzioni a tempo indeterminato (che con la riforma è diventato “a tutele crescenti”). Dati alla mano, tra il 2015 e il 2017 si sono avuti circa 900 mila nuovi posti di lavoro: a un primo sguardo si tratta di numeri positivi, ma dire quanti siano dovuti al Jobs Act e quanti alla decontribuzione è più complesso. In effetti, di pari passo con la diminuzione degli incentivi, sono diminuiti anche i contratti a tempo indeterminato e si è avuta una maggiore incidenza di quelli a termine. Dunque se la riforma del lavoro aveva come obiettivo quello di determinare un’inversione di tendenza, cioè di far diventare il contratto a tutele crescenti la principale forma di accesso al mercato del lavoro, possiamo dire che non ha funzionato”.
L’abolizione dell’articolo 18 è servita a sbloccare il mercato del lavoro?
“Anche in questo caso dire che la cancellazione dell’articolo 18 sia stata funzionale all’aumento dei posti di lavoro è difficile. Detto questo io non tornerei indietro, non credo che la risposta sia nella sua reintroduzione. È chiaro che averlo eliminato ha introdotto una diversa concezione del mercato del lavoro che non distingue più tra lavoro stabile e lavoro temporaneo e introduce un tipo di flessibilità diversa: adesso in media i contratti durano meno di cinque anni e non tanto perché si viene licenziati ma piuttosto perché sono le persone che scelgono di cambiare. Non sono pochi i segnali che ci mostrano come il mercato del lavoro stia cambiando e si stia dirigendo verso dinamiche di transizioni continue”.
E questo è un fatto positivo?
“Lo è se consideriamo quei casi virtuosi di lavoratori, specialmente giovani, che progettano carriere che si compongono di periodi di lavoro dipendente, periodi di formazione, periodi di lavoro autonomo, periodi di riqualificazione. Poi ci sono quei lavoratori che, anche a fronte delle minori tutele in caso di licenziamento, si trovano a cambiare spesso lavoro. A questo proposito il mio giudizio è molto più critico relativamente alle politiche attive per il lavoro per le quali il Jobs Act, nonostante le promesse, ha fatto ancora poco. C’è più flessibilità, ci si sposta di più, si cambia più spesso impiego e allora è quanto mai necessario aiutare il lavoratore nei periodi di transizione tra un lavoro e l’altro, un periodo che non dovrebbe essere vissuto come una condanna, ma come un’opportunità per formarsi e riqualificarsi per prepararsi a nuovi impieghi”.
Guglielmo Loy
Segretario Confederale Uil
“Una premessa è d’obbligo: decontestualizzare qualsiasi riforma del mercato del lavoro dal quadro economico-sociale non ha senso. È chiaro che con un’economia che cresce al 3% ogni riforma va bene e i posti di lavoro aumentano comunque, con un’economia al -2% gli effetti di qualsiasi legge o incentivo sulla crescita occupazionale sono comunque parziali. Dunque qualsiasi giudizio sul Jobs Act non può prescindere dal dato macroeconomico”.
Detto questo, il bilancio della riforma è positivo o negativo?
“A mio avviso il Jobs Act ha una contraddizione di fondo: a parole si proponeva di privilegiare i rapporti di lavoro a tempo indeterminato, nei fatti ha reso talmente appetibili per le aziende i contratti a termine che si è optato in maggioranza per questi ultimi. Il problema è che si è cercato di controbilanciare la liberalizzazione dei contratti a termine (l’abolizione del vincolo della causale, la possibilità di rinnovarli per 3 anni senza giustificazione), con la misura, costosissima per lo Stato, degli incentivi fiscali per chi assumeva con contratto a tempo indeterminato. Finché c’è stata, la decontribuzione ha spinto il contratto a tutele crescenti, ma una volta finita tutte le imprese hanno decisamente virato verso il contratto a termine”.
Che effetti ha avuto l’abolizione dell’articolo 18 in termini di licenziamenti? Sono aumentati come i sindacati temevano?
“È troppo presto per dirlo. Certamente la cancellazione di quella tutela ha portato a un pesante sbilanciamento del potere all’interno delle imprese a favore dei datori di lavoro e a discapito dei lavoratori. L’abolizione dell’articolo 18 ha effetti non solo sui licenziamenti ma anche in generale sulla “ricattabilità” dei dipendenti, insomma rende meno facile per un lavoratore rivendicare dei diritti”.
Secondo lei la cancellazione dell’articolo 18 ha contribuito all’aumento dei posti di lavoro?
“In questi anni l’occupazione è un po’ cresciuta ma il merito va attribuito a tre fattori che hanno agito insieme: innanzitutto la congiuntura economica più favorevole, che secondo me è quella che ha inciso di più, poi gli incentivi fiscali che hanno ridotto notevolmente il costo del lavoro incentivando le imprese ad assumere e solo in ultima battuta, e a mio avviso marginalmente, l’articolo 18. Il teorema di Renzi che ha ispirato la riforma era: rendiamo più facile assumere e più facile licenziare, ma nei fatti non funziona proprio così. Anche perché questo teorema richiederebbe un forte investimento in tema di politiche attive e di formazione che non c’è stato. In più, contestualmente, la riforma ha depotenziato uno strumento fondamentale di sostegno come la cassa integrazione, sia quella ordinaria che quella straordinaria, rendendola più complicata e più costosa, al punto che molte aziende in questi anni invece che ricorrervi e resistere hanno optato per la strada degli esuberi e dei licenziamenti”.
Luigi Oddi
Senior Partner Horton International
Dottor Oddi dal punto di vista di chi si occupa di head hunting cosa si può dire del Jobs Act?
“La riforma ha agito soprattutto sulla flessibilità del mercato del lavoro, una flessibilità che già c’era in entrata e che con il Jobs Act è stata introdotta anche in uscita grazie all’abolizione dell’articolo 18. Questi interventi hanno avuto l’effetto di accrescere numericamente l’occupazione e contestualmente anche di aumentare la produttività dei lavoratori. Se questo era l’obiettivo si può dire che è stato raggiunto, d’altra parte non so se le condizioni dei lavoratori siano effettivamente migliorate”.
Nel settore in cui lei opera la riforma ha avuto qualche effetto?
“La legge non ha avuto particolari riflessi nel campo dell’head hunting e anche l’abolizione dell’articolo 18 ha avuto meno impatto perché alla maggioranza dei manager già non si applicava questa tutela. Quello che ho notato in questi anni è che, probabilmente per effetto della maggiore flessibilità in generale del mercato del lavoro, sono aumentati i manager disponibili ad accettare contratti a termine della durata di 2 o 3 anni o ruoli di temporary manager. Dunque anche il mercato delle figure manageriali è diventato più mobile e aperto a dinamiche di transizione”.