Jobs Act e Licenziamenti “facili”. Dal reintegro all’indennizzo: un primo bilancio
Dati alla mano le cause di diritto del lavoro rimangano tra le più numerose nell’ambito del contenzioso civile. Tuttavia, stando al saldo delle pendenze registrate dal 2009 a oggi, sembra si stia consolidando un trend, già avvertito nel corso dell’attività quotidiana da diversi giuslavoristi, di progressiva riduzione delle liti decise dai Giudici del Lavoro
Dati alla mano le cause di diritto del lavoro rimangano tra le più numerose nell’ambito del contenzioso civile. Tuttavia, stando al saldo delle pendenze registrate dal 2009 a oggi, sembra si stia consolidando un trend, già avvertito nel corso dell’attività quotidiana da diversi giuslavoristi, di progressiva riduzione delle liti decise dai Giudici del Lavoro.
Tale dato, peraltro, dà ancor più da riflettere se si considera la congerie storica ed economica degli ultimi anni, anni di oggettiva difficoltà per le imprese italiane, di ricorso massiccio a licenziamenti e misure di riduzione dei costi del lavoro, rispetto ai quali era ragionevole attendersi una proporzionale eco nelle aule di tribunale.
Naturalmente, non si può attribuire il risultato attuale al solo Jobs Act¸ considerando la giovane età del provvedimento. Quest’ultimo, infatti, rappresenta il punto di arrivo di un percorso di riduzione di incertezze applicative e interpretative, spesso causa di di lite, nonché di definizione di tempistiche certe per l’esercizio delle azioni giudiziali.
In tal senso, in termini di valore deflattivo del ricorso alla giustizia, ha avuto sicuramente una rilevanza primaria il c.d. collegato lavoro (Legge n. 183/2010), che ha precluso la possibilità di avviare liti a distanza di anni dall’epoca dei fatti di causa.
A tale legge sono poi succedute la c.d. Riforma Fornero (Legge n. 92/2012) e il c.d. Decreto Poletti (D. L. 34/2014, poi convertito nella Legge n. 78 dello stesso anno). Si tratta di provvedimenti intervenuti in maniera decisa su istituti quali quelli del contratto a tempo determinato e di somministrazione di manodopera che negli ultimi decenni avevano generato filoni di contenziosi, spesso alimentati – occorre dirlo – anche da interpretazioni giurisprudenziali poco coerenti con il dettato normativo e le esigenze di flessibilità legate a tali tipi di strumenti.
In particolare, al fine di prevenire l’abuso di tali forme contrattuali, si è passati da un sistema nel quale l’attenzione era posta sulla motivazione (la c.d. “causale”) del ricorso a un contratto non subordinato e a tempo indeterminato – la forma, per così dire, tradizionale del rapporto di lavoro – a un sistema dove il datore di lavoro non ha più bisogno di giustificare l’utilizzo di tali contratti fintanto che rispetti una determinata proporzione tra i lavoratori impiegati con tali strumenti e quelli assunti a tempo indeterminato.
Ciò premesso, è indubbio che l’eliminazione della necessità di indicare una causale nella redazione di tali contratti, sostituendo a essa un criterio di verifica meramente numerico contribuisca a eliminare aree soggette a interpretazioni contrastanti e, conseguentemente, a ridurre le ragioni di lite.
Con i decreti n. 23 e n. 81 del 2015 si è voluto procedere su tale solco, anche se con qualche ripensamento rispetto al passato che solo il tempo potrà dirci se sia stato opportuno o meno attuare.
L’abrogazione dal 1° gennaio scorso dei contratti a progetto, ad esempio, sembra soffrire di tale equivoco: è senz’altro vero che le cause relative alla riqualificazione di tali rapporti in rapporti di lavoro subordinato abbiano costituito negli anni uno dei fronti di maggiore litigiosità difronte alle Corti lavoristiche; è altrettanto vero, però, che ciò che il decreto n. 81 fa scomparire è soltanto l’obbligo di redazione del progetto, non anche la possibilità di instaurare rapporti di collaborazione continuativa. Dunque, se il precedente utilizzo delle collaborazioni a progetto venisse “rimpiazzato” da collaborazioni continuative (identiche alle precedenti, ma prive dell’indicazione di un progetto), l’abrogazione in questione potrebbe non determinare il risultato deflattivo sperato.
Va, poi, valutato l’effetto dell’abrogazione della procedura di conciliazione prevista dalla Riforma Fornero per i licenziamenti per motivo oggettivo. Tale procedura era stata resa obbligatoria per tutti i licenziamenti c.d. “economici” intimati a partire dal luglio 2012 e imponeva al datore di lavoro che intendesse procedere a riduzioni del personale per tali ragioni di vagliare difronte alle commissioni territoriali del Ministero del Lavoro eventuali possibilità alternative al licenziamento.
Ebbene, non si ritiene sia il caso di soffermarsi sulla necessita di intervenire nuovamente su di un istituto, quello del tentativo di conciliazione stragiudiziale, che ha avuto sorti alterne e tribolate nel corso degli ultimi due decenni. Ci si domanda, tuttavia, se fosse opportuno abrogare un strumento che, nel pur breve arco temporale di vigenza della sua ultima formulazione, ha dato risultati decisamente confortanti (si pensi che i tentativi di conciliazione di competenza delle direzioni territoriali del lavoro a norma della disposizione in discussione si sono risolti con un accordo tra le parti in circa il 50% dei casi).
Inoltre, un “effetto collaterale” dell’abrogazione di tale procedura è il venir meno, per i licenziamenti giustificati da ragioni non inerenti la condotta disciplinare del lavoratore, di una disposizione volta a frustrare gli abusi collegati a quelle certificazioni mediche che – con sospetto tempismo – erano (e sono) solite comparire in concomitanza con i procedimenti espulsivi.
A parere di chi scrive, al di là dei tecnicismi collegati al tema, tale norma era un chiara presa di posizione da parte del legislatore nei confronti di certi malcostumi sfortunatamente molto comuni nel nostro Paese. Rincresce, pertanto, constatare l’abrogazione della stessa e il ritorno al “far west” dopo alcuni anni di miglioramento del fenomeno.
Giungendo al tema probabilmente di maggior interesse per gli addetti ai lavori, l’elemento che – quanto meno potenzialmente – si presenta come quello di impatto più rilevante sulla mole dei contenziosi è la nuova formulazione delle conseguenze del licenziamento illegittimo previste dal decreto n. 23 (le c.d. tutele crescenti).
Con tale decreto il nostro sistema adotta definitivamente un sistema di tipo indennitario (realizzando il passaggio da un sistema di property rule a un sistema di liability rule, se volessimo usare le categorie proprie della Law & Economics). Vale a dire che, in relazione a un licenziamento che risulti infondato, alla originaria tutela reintegratoria generalizzata (cioè, al licenziamento illegittimo corrispondeva, in ogni caso, la ricostituzione del rapporto di lavoro) si è sostituito il riconoscimento di una compensazione economica, crescente con gli anni di servizio (cioè, salvo casi eccezionali – che vedremo più avanti – il licenziamento illegittimo dà diritto al lavoratore a ricevere un risarcimento economico, ma non anche la reintegra nel posto di lavoro).
Ciò, nei fatti, consente di avere una maggiore certezza con riferimento alle conseguenze del licenziamento stesso – non più soggetto alla “spada di Damocle” della possibilità di reintegra – facilitando la negoziazione stragiudiziale della vertenza. Peraltro, soprattutto nei primi anni del rapporto – nei quali l’ammontare dell’indennità risarcitoria riconosciuta al lavoratore è più modesta – i costi del procedimento comparati al possibile risultato dello stesso (in termini di risarcimento riconosciuto al lavoratore dal Giudice) potrebbero ulteriormente suggerire alle parti di risolvere la lite senza ricorre a un giudizio.
Tuttavia, allo stato attuale, ogni valutazione rispetto all’impatto di tale decreto sul numero complessivo dei contenzioni non può che essere prematura. Innanzitutto, i dati oggi disponibili non possono considerarsi attendibili, né pienamente indicativi in quanto la generalizzazione del sistema di tutela indennitaria non è ancora entrata a pieno regime, essendo applicabile soltanto per gli assunti a partire dal 7 marzo 2015.
Inoltre, come accaduto già in passato a seguito della modifica da parte delle Legge Fornero delle disposizioni relative alle conseguenze del licenziamento illegittimo, è presumibile che nella prassi applicativa si registrino interpretazioni estensive o, per così dire, “adeguatrici” delle disposizioni emanate, utilizzano le “scappatoie” concesse del sistema per recuperare la tutela reintegratoria (la property rule di cui si è detto) precedentemente riconosciuta nella generalità dei casi.
In tal senso, si rinvengono già da parte dei giudici di merito e legittimità le prime interpretazioni – a dir poco creative – volte ad aggirare i nuovi limiti posti dal legislatore alla discrezionalità del giudice nella valutazione dei licenziamenti intimati per motivi disciplinari.
È, inoltre, verosimile che si assista nei prossimi anni a un incremento sproporzionato di impugnazioni di licenziamenti che baseranno la propria contestazione del provvedimento stesso su ragioni di carattere discriminatorio, vessatorio o ritorsivo. Tali motivi, infatti, permettono di “aggirare il sistema indennitario” e recuperare ancora oggi la tutela reintegratoria, altrimenti non riconoscibile.
In proposito, alcuni commentatori iniziano già a parlare di avvicinamento del nostro ordinamento a ai sistemi britannici e, soprattutto, nord americano, dove a una protezione debole in caso di licenziamento illegittimo si affianca una tutela forte per avvenimenti – per così dire – non direttamente inerenti la fisiologia del rapporto lavorativo e la sua conclusione.