Quei passi indietro su cassa per cessata attività, Ilva e sentenza sull’articolo 18
Intervista a Paolo Iacci (Aidp Promotion) sulle scelte del nuovo governo e la sentenza della Corte Costituzionale sul Jobs Act: serve un sistema di politiche attive del lavoro e certezza delle regole da applicare. Lo Stato deve spendere per riqualificare le persone e per l’occupazione, non dare sussidi
Il governo “gialloverde” ha prolungato al 2020 la Cassa Integrazione Guadagni per cessata attività. Quella stessa che, nelle previsioni del Jobs Act, doveva “finire” a dicembre 2018, sostituita da altri strumenti più dinamici. Il provvedimento fa discutere per la discontinuità dai precedenti governi sulle politiche attive del lavoro. Ai sindacati la misura piace, altri parlano di un ritorno al passato.
Ne abbiamo parlato con Paolo Iacci, presidente di ECA Italia e di Aidp Promotion e docente di Gestione Risorse Umane alla Statale di Milano.
Che valutazione dà del prolungamento della “cassa” per cessata attività?
«Uno dei miei primi impieghi è stato in Gepi, una finanziaria pubblica che aveva come mission quella di reinserire nel mondo del lavoro persone in cassa integrazione. Alcuni di loro erano in cassa da 10 o 20 anni, avevano perso la motivazione e non avevano appeal per le imprese. Ecco, credo in Italia ci siamo dimenticati di quell’esperienza drammaticamente fallimentare».
Cosa non funzionava?
«Tutto il meccanismo. Dobbiamo essere chiari e precisare che parliamo solo della cassa per cessata attività, non di altri strumenti. La cassa è integrativa del reddito se attiva per un periodo limitato, altrimenti è sostitutiva e non va bene per due ragioni: è spesa pubblica non finalizzata alla riqualificazione e al miglioramento delle competenze e genera lavoro nero, togliendo potenzialmente lavoro in regola».
Uno strumento da cancellare, come era previsto?
«Sono favorevole a misure transitorie di integrazione al reddito di dipendenti di imprese che affrontano crisi transitorie. Sono strumenti che aiutano a superare le crisi congiunturali. La cassa per cessazione non integra nulla, è un sussidio di disoccupazione reiterato nel tempo che deprime le motivazioni e genera lavoro nero. Sembra che le esperienze del passato non abbiano insegnato nulla».
Anche la conclusione della trattativa per la cessione dell’Ilva si muove all’interno di questa tendenza?
«Indubbiamente sì. Rispetto alla precedente ipotesi di accordo, quella del ministro Calenda per intenderci, vedo un anticipo degli investimenti per il risanamento ambientale, ma un peggioramento dal punto di vista dell’occupazione. Nella società di risanamento ambientale, prevista dal piano Calenda, che sarebbe andata avanti molto oltre il 2023 visto il lavoro enorme da fare, erano previsti 1.500 posti di lavoro. Ora non ci sono più. Questi lavoratori, allo scadere degli ammortizzatori, dovrebbero tornare in capo ad Arcelor, che si è impegnata ad assumerli in caso di aumento di produzione. Con i vincoli che ci sono, è scontato che non ci sarà nessun aumento di produzione e diventeranno esuberi prima del 2023. Un segnale è anche l’incremento di 50 milioni di euro del fondo per gli esodi incentivati, è un po’ un mettere le mani avanti. Il sindacato sembra aver preferito la cassa integrazione alla scommessa sull’occupazione nella società di risanamento ambientale. Dal punto di vista dell’etica delle relazioni dello Stato con i propri interlocutori, io preferisco uno Stato che spende e investe per il lavoro e la massima occupazione, non per altro».
Tornando al tema generale, qual è il modello migliore per tutelare e riqualificare il lavoratore?
«Quello delle politiche attive del lavoro, fatto di rapporto pubblico-privato e investimenti in formazione e riqualificazione professionale. Con i soldi che già si spendono nella cassa integrazione fittizia, si potrebbero incentivare le imprese a formare personale da assumere, per le proprie necessità produttive. Non si tratta di un regalo, ma di un investimento, perchè c’è il vincolo all’assunzione. In questo quadro ci stanno anche le indennità di sostegno ai disoccupati, nella fase tra la perdita del posto e l’ottenimento di un nuovo lavoro».
Che valutazione dà della sentenza della Consulta che ha “bocciato” i meccanismi di indennizzo previsti dal Jobs Act, che hanno sostituito la reintegra prevista dall’articolo 18?
«La Corte Costituzionale ha deciso che la previsione di un’indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore è contraria ai principi di ragionevolezza e di uguaglianza se raffrontata al trattamento di cui ancora godono i lavoratori che sono stati assunti prima dell’entrata in vigore del Jobs Act. Cadendo l’automatismo del calcolo dell’indennizzo basato solo sull’anzianità di servizio, il giudice ora dispone di un potere di quantificazione dell’indennizzo stesso dal minimo di 6 al massimo di 36 mensilità. Una volta di più lavoratore e datore di lavoro non dispongono di un meccanismo trasparente che regoli il loro rapporto professionale, negando la certezza del diritto e introducendo nuovamente elementi di disuguaglianza tra un lavoratore e l’altro. Tutto si riduce a una scommessa il cui esito è nelle mani imperscrutabili del giudice che il caso ha scelto. Questo determinerà un nuovo picco di contenziosi e un nuovo freno all’occupazione. Non solo: la declaratoria di incostituzionalità nell’interpretazione di qualche giudice potrebbe infatti comportare il venir meno dell’intera norma con il ritorno all’applicazione dell’art. 18 che anche il nuovo Governo aveva deciso di non ripristinare, limitandosi nel Decreto dignità a innalzare l’indennizzo previsto. Riuscirà mai il nostro Paese a trasformarsi in un Paese normale?!»