«Il nuovo modello di leadership è propenso all’ascolto e non autoritario: fondamentale la volontà dei ruoli apicali nello stimolare il cambio di passo»
Laura Cospite, ingegnere aerospaziale in Avio: «La strada verso il traguardo delle pari opportunità è ancora lunga e occorre vigilare per non assistere a involuzioni»
È ingegnere aerospaziale ed è arrivata in Avio quando stava partendo il progetto del lanciatore italiano. Laura Cospite è responsabile del dipartimento di ingegneria di prodotto che si occupa delle strutture, del sistema di propulsione a liquido degli equipaggiamenti della Avio, azienda leader nella propulsione aerospaziale. Con lei prosegue il viaggio che HR Link sta intraprendendo nel mondo della leadership, per ragionare sull’esistenza e sulle tipicità di quella femminile.
Qual è stata la sua esperienza in un settore così “speciale”?
Mi sono laureata in ingegneria aerospaziale: sono studi tecnici senz’altro a prevalenza maschile, sebbene da quando ho iniziato la presenza delle donne sia senz’altro aumentata. Dopo la laurea ho avuto l’opportunità di iniziare subito a lavorare in Avio come ricercatrice in un dipartimento molto tecnico, all’ufficio progettazione dei sistemi lanciatore, e sono stata la prima donna ad entrare in quel luogo. Certamente all’inizio un impatto c’è stato, ma mi sono sempre relazionata bene con i colleghi, mi hanno accolta e mi sono integrata subito.
Esiste, dal suo punto di vista, una leadership al femminile o è solo una narrazione in voga?
Credo che esistano diversi approcci alla leadership e soprattutto esiste un vecchio modo di fare leadership, che ha a che fare con l’aggressività, la detenzione del potere, il comando; si tratta di un modello più autoritario che io collego a un approccio tipicamente maschile, anche perché senz’altro gli uomini hanno sempre rivestito ruoli agli apici delle aziende. Questo tipo di leadership non è più una metodologia che funzioni in vista del raggiungimento degli obiettivi; oggi si lavora più in team, in gruppo, e questo significa mantenere relazioni interpersonali, e contare su diversi approcci.
Pensa che l’ingresso delle donne più massiccio nel mondo del lavoro abbia contribuito a modificare la metodologia di leadership?
Purtroppo non possiamo dire che le donne abbiano raggiunto la parità di presenza nei ruoli di spicco, però il loro ingresso più corposo, anche semplicemente nel tessuto delle organizzazioni, ha forse dato una spinta al cambiamento in questo senso. Questo penso sia indubbio.
Quanto ha influito, invece, l’intervento della politica?
Ben vengano le quote rosa che possono agevolare un cambio di passo culturale. Il problema è che siamo ancora molto indietro: basti vedere ciò che è capitato a Ursula von Der Leyen durante il recente incontro con Erdogan. Purtroppo, questa è la situazione e la cultura va cambiata anche intervenendo a livello di politiche che siano incisive. Ciò significa che le competenze devono essere un pre-requisito per tutti, donne e uomini. Ma in uno scenario in cui il mondo della formazione è sempre più composto da donne, un po’ per tutti i ruoli – benché in alcuni settori il bacino cui si attinge sia ancora più maschile – è un vero peccato non dare a tutti le stesse possibilità, indipendentemente dal genere. E se le leggi possono ancora servire, è importante che ci siano; il giorno in cui non faremo più interviste come questa avremo conseguito l’obiettivo. Saremmo incoscienti se dicessimo che abbiamo già raggiunto il traguardo.
Il tema, insomma, è sempre quello dell’accesso a pari opportunità…
Io non sono una donna che fa ricorso al conflitto di genere come scusa per ogni situazione. Credo che, laddove ci sono difficoltà, vada messa avanti la professionalità, che ritengo uno strumento più efficace del conflitto.
Quali sono secondo lei caratteristiche di leadership più spiccatamente femminili?
Credo che le donne siano più pazienti, più portate all’ascolto, più abituate a mettere in comune le potenzialità. Non intendo dire che queste siano per forza caratteristiche solo femminili; ho avuto dei superiori che mi hanno insegnato la comunicazione e l’ascolto, aspetti che per me costituiscono un valore aggiunto. Penso, però, che queste siano le caratteristiche più importanti per esercitare una leadership di qualunque tipo e a qualunque livello.
Nel suo team sono presenti delle donne?
Ho una ragazza. La presenza femminile è meno pervasiva di quella maschile e si attesta attorno al 15% circa in Avio.
Ha notato un’evoluzione – magari lenta – in questi anni, un diverso atteggiamento nelle nuove generazioni?
Ammetto di non aver notato un incisivo cambio di passo, se non – in parte – negli ingressi in azienda: il numero di ragazze che si approcciano a determinati ruoli, considerati storicamente maschili, è maggiore e questo aiuterà a far percepire il cambio come normalità. Ma c’è ancora molto lavoro da fare, a partire dall’educazione in famiglia; non ci si rende conto che semplici gesti sono discriminanti. E poi c’è tutto il tema della conciliazione della carriera con gli impegni della famiglia e della maternità, che per le donne è ancora un fardello. Oggi le politiche familiari non ci aiutano molto e ci si trova spesso davanti a una scelta; talvolta si tratta di un limite che le donne si autoimpongono. Io ho una famiglia, due figli e sono riuscita a ritagliarmi il mio spazio professionale; è chiaro che si può fare, ma io probabilmente sono stata fortunata. In questo periodo di pandemia sappiamo che per le donne è stato tutto molto difficile sul fronte lavorativo.
Dunque, è importante lavorare sull’educazione….
Sì, su scuola, educazione in famiglia, su politiche per la famiglia. Serve un cambio culturale che non arriva facilmente, ma è qualcosa che si costruisce e sicuramente necessario.
Il linguaggio può aiutare questo cambiamento?
Il modo in cui le donne vengono appellate non mi pare possa davvero fare la differenza. In ogni caso, ribadiamo che nessuno vuole un mondo no gender, ma un mondo, semmai, in cui ognuno possa portare le proprie differenze come valore. Insomma, per me è importante che alle donne venga riconosciuta una professionalità. Mi possono anche chiamare ingegnera invece di ingegnere, non è un problema per me, questo: importante è che vengano riconosciute professionalità, competenze, ruolo e le stesse opportunità del collega maschio. Non è, insomma, nell’uso del linguaggio che vedo la spinta del cambiamento. Ma è anche vero che ci appaiono strani certi appellativi coniugati al femminile solo perché non siamo abituati a sentirli.
Quali altri strumenti possono essere utili per spingere il cambiamento culturale?
Credo che, in azienda, dall’alto, si debba sempre più guardare alle competenze a prescindere dal genere. Sono stati fatti passi avanti ma ancora siamo lontani dalla parità di presenze.
Forse il cambio generazionale potrà aiutare il passaggio?
Probabilmente sì; di certo gli apici aziendali e la politica hanno in questo senso una grande responsabilità e devono volere il cambiamento. Inoltre, è importante non abbassare mai l’attenzione per evitare involuzioni.
Come mai ha scelto si intraprendere lo studio di ingegneria aerospaziale?
Mi sono sempre sentita più portata verso le facoltà scientifiche piuttosto che verso quelle umanistiche. A lungo ho meditato se iscrivermi alla facoltà di Matematica, ma non mi sentivo portata per l’insegnamento; poi ho pensato che fosse meglio per me optare per ambiti più pratici e applicativi. Così mi sono dirottata verso Ingegneria e verso un ambito così affascinante come quello aerospaziale. La mia grande fortuna è stata senz’altro anche quella di riuscire a mettere subito a frutto gli studi fatti, iniziando in una società nella quale era appena stato avviato il progetto del piccolo lanciatore italiano. Noi eravamo i primi in Europa dopo la Francia e quindi è stata una bella avventura, che oltre tutto ha avuto un esito importante, visto che il lanciatore è stato messo in produzione.