Il coaching a misura d’uomo di AICP: dalle comunità locali a una visione europea
La presidente Laura Leone: «Il cuore della nostra associazione sono i Coaching Club sul territorio. Con la pandemia è aumentato l’interesse per la nostra disciplina. È necessario ripensare a tempi di vita più lenti»
«AICP ha come grande peculiarità quella di essere nata dal basso e con un forte legame con il territorio. Adesso guarda all’Europa e punta a creare una visione condivisa del coaching europeo». Laura Leone è la presidente di AICP – Associazione Italiana Coach Professionisti e fa il punto su questa disciplina, che sta vivendo un «momento di forte interesse e di crescita», riflettendo anche sulle prospettive future.
Leone, il vostro è un mondo molto diversificato, qual è la vostra definizione e visione del coaching?
«Rispetto alla definizione, c’è sicuramente una varietà di approcci, ma è importante innanzitutto partire da una definizione rigorosa e allineata con le altre associazioni con le quali collaboriamo: quella della UNI 11601 del 2015. La norma definisce il coaching come un processo di partnership basato su una relazione strutturata e finalizzato al raggiungimento di un obiettivo di performance, non di risultato, definito dal cliente (coachee) e con l’eventuale committente. Tra gli obiettivi rientra certo anche lo sviluppo delle competenze. La nostra visione è un coaching a servizio di una vita etica; il nostro modo di concepire il coaching si caratterizza soprattutto per il suo potere creativo, generativo, inteso in senso stretto proprio come la possibilità di trovare nuovi modi di vedere il mondo».
Si usa spesso il paragone con la maieutica di Socrate, proprio perché l’obiettivo non è fornire nuovi contenuti ma far emergere potenzialità e peculiarità già presenti.
«Sì, è così, tra i nostri valori ispiratori c’è proprio quello di fare emergere il potenziale esistente; in più oserei dire che il coaching rappresenta un’evoluzione della maieutica stessa, nei termini di Danilo Dolci: è una maieutica reciproca, in cui anche il coach può e deve osservare se stesso nella relazione e sviluppare continuamente la propria competenza per fornire un servizio che tenda all’eccellenza. Una sfida sempre nuova per tutti gli attori del processo, di cui il coach è esperto».
Quando nasce e com’è attualmente composta AICP?
«Siamo nati nel 2009 da un gruppo di coach, tra i quali alcuni già dotati di una sostanziosa esperienza, che hanno creduto nelle competenze distintive di AICP: piuttosto che ispirarsi a modelli già esistenti si è cercato di creare un approccio che partisse dalla cultura da cui nasceva e puntando a una società più felice, in termini eudamonici. Nel 2009 i coach di AICP erano in 30 e da lì si è sviluppata sul territorio una associazione con la distintività dei Coaching Club, “casa e cuore” della nostra realtà. I Coaching Club creano comunità e permettono di far pratica ed esperienze, oltre a organizzare eventi per divulgare una buona cultura di coaching. Credo che la territorialità, il fare insieme e il saper divenire, rimanga il nostro tratto distintivo».
Quanti sono i Coaching Club e quanti sono i vostri iscritti attuali?
«I Coaching Club sono presenti in 15 regioni e coprono quasi tutto il territorio nazionale; gli iscritti sono in totale circa 550. Oltre alla caratteristica territoriale ci muoviamo ovviamente anche in un livello nazionale, che significa lavorare per tutti i cinquecento soci, ad esempio attraverso la formazione continua; poi c’è una dimensione trasversale che mette insieme i soci dei Coaching Club in tavoli nazionali di approfondimento di ricerca e formazione».
Quali sono i criteri di accreditamento con AICP e come funziona il percorso di riconoscimento?
«Serve una distinzione tra qualificazione, riconoscimento e certificazione.
AICP riconosce dei corsi base professionalizzanti, organizzati da scuole che richiedono tale riconoscimento: nell’ambito di questa procedura noi valutiamo la qualità del corso, sulla base di criteri presenti sul nostro sito e visibili a tutti, che hanno lo scopo di garantire una formazione strettamente legata alle competenze necessarie per svolgere la professione ed elargita in un tempo minimo utile ad acquisirle e farle proprie, in coerenza con ciò che il coaching prevede, e cioè un tempo per un apprendimento. Questo riconoscimento per il cliente rappresenta già un elemento di qualità.
Per quanto riguarda la qualificazione, invece, partiamo dal presupposto che la legge permette al coach di autoqualificarsi, ma che la qualificazione da parte di AICP è più autorevole; AICP è non a caso iscritta negli elenchi del Ministero per lo Sviluppo economico, grazie all’adesione ai requisiti di qualità e garanzia per il cliente finale previsti dalla legge 4/2013.
Infine, certificarsi in Italia vuol dire che un ente terzo verifica la qualità del servizio del coach professionista; anche in questo caso, AICP siede al tavolo UNI per la definizione della nuova norma sulle competenze e allo stesso tempo collabora con enti di certificazione per contribuire alla definizione e all’aggiornamento degli standard minimi per la certificazione. Oltre a ciò, importante è sapere che AICP è un luogo in cui ogni socio o socia ha la possibilità di sviluppare ulteriormente le sue competenze, tramite il confronto con altri professionisti, grazie alla formazione continua, alle comunità di pratica del coaching che da anni sono state costituite in AICP, e ai tavoli di lavoro sulla formazione e la ricerca, dove il confronto e lo studio diventano conoscenza e pratica fatta insieme, a servizio di tutti».
Esistono delle materie necessarie nei corsi?
«Il corso professionalizzante deve dedicare sicuramente gran parte dello spazio alle competenze del coach AICP, quindi parliamo – oltre alle competenza tecnico-professionali e realizzative – anche di ulteriori competenze trasversali ideate specificatamente da AICP dalla socia Del Pianto, che ne ha costruito il modello distintivo».
Si può definire un profilo di chi decide di diventare coach o si avvicina ai corsi?
«Questa domanda mi permette di fare una precisazione: non tutti coloro che frequentano un corso vogliono diventare coach, ma posso semplicemente pensare di utilizzare le competenze acquisite nella propria professione. Si tratta di un aspetto importante, perché compito delle scuole – oltre che di AICP – è anche chiarire questo duplice percorso».
Che anno ha vissuto il coaching nel 2020, alle prese con la pandemia?
«Credo che si sia dimostrato uno strumento potente e in grande crescita. Le sessioni si sono potute continuare a svolgere online e la richiesta è aumentata nel mondo del lavoro. Non si cerca più un lavoratore semplicemente competente, ma anche consapevole dell’esperienza umane. Una persona in grado di far “esplodere” competenze sia tecniche che professionali grazie alla sua umanità. In tutto questo il coaching viene visto assolutamente come l’opportunità».
C’è chi sottolinea che per il futuro sarà importante «pesare» la possibile alleanza con l’intelligenza artificiale. Lei cosa ne pensa?
«Piuttosto che esprimermi sull’intelligenza artificiale mi piace completare il cerchio dall’altro punto di vista, quello della natura: è necessario ripensare a tempi più lenti, fermarsi se e quando serve per chiedersi il senso e recuperare la dimensione umana della vita. La nuova innovazione è stare nei tempi e avere cura della relazione e dei percorsi. Il coaching è un lavoro di sartoria, per citare uno dei padri fondatori di AICP: pensa e progetta un abito su misura per ogni contesto e desiderio di sviluppo. Siamo come alberi, il cambiamento ha bisogno di tempo. Esistono diverse velocità e ognuna di questa ci appartiene».
Volendo sintetizzare il concetto in che modo spiegherebbe i vantaggi del coaching?
«L’acquisizione di consapevolezza è il grande vantaggio, l’apertura nei confronti di una cultura che non ci appartiene più o che ancora non ci appartiene: mettere in contatto mondi diversi. Utilizzare le proprie risorse non significa negare che ci siano dei limiti, vuol dire provare a compensare quei limiti e difetti attraverso la valorizzazione della risorsa piuttosto che della mancanza. Si tratta di una rivoluzione rispetto alla mentalità del secolo scorso, una rivoluzione votata al continuo potenziamento. I vantaggi quindi sono diversi».
E per quanto riguarda AICP quali sono i vostri progetti futuri?
«Partiamo dal presente, che è un tipico modo di pensare del coaching. Stiamo organizzando eventi di divulgazione sul territorio con progetti pro bono programmati nella “Primavera del coaching”, il nostro storico evento che quest’anno per la seconda volta è fatto di sessioni pro bono per le comunità. Uno sviluppo importante che stiamo costruendo è quello con le università: di nuovo c’è che abbiamo pubblicato un bando pubblico per finanziare progetti di ricerca sull’efficacia del coaching e diverse università di spessore hanno aderito. Una cosa ancora alla quale teniamo molto è poter contribuire al lancio di una prospettiva europea del coaching: con altri partner e associazioni europee vogliamo andare alla ricerca di approcci e pratiche che tengano conto del contesto, proprio come definisce la norma sul coaching: un coaching più vicino alle nostre esigenze, in continuità con il grande contributo dato dal mondo anglosassone ma con specificità tutte europee. Infine, vi lasciamo con un invito per questo autunno, quando come ogni anno si terrà il forum nazionale di AICP, al quale siete tutti invitati! È il nostro evento aperto in cui divulghiamo il buon coaching invitando ospiti di rilievo».