Oltre la punta dell’iceberg: le vere urgenze dell’inclusione
Le politiche DEI stanno subendo un ridimensionamento in alcune grandi aziende degli Stati Uniti. E in Europa? Davanti al sentore di un importante cambiamento è inutile smarrirsi in battaglie ideologiche, rischiando di perdere di vista tematiche più concrete, come, in Italia, l’occupazione femminile, quella giovanile e l’immigrazione qualificata
Harley-Davidson, Nike, Google e altre grandi aziende statunitensi già da qualche tempo stanno facendo marcia indietro sulle loro politiche di diversità, equità e inclusione (DEI).
Ford, per esempio, ha recentemente sospeso alcune attività, come la partecipazione a sondaggi condotti da gruppi di advocacy LGBTQ+. Harley-Davidson ha annunciato in una nota ufficiale che non è più intenzionata a rispettare le quote nella selezione del personale, e che intende basarsi solo su talento e merito. La casa motociclistica aveva già preso altre decisioni nella stessa direzione, influenzata dalle crescenti critiche e dal malcontento della sua community. Più in generale, il ridimensionamento delle politiche DEI negli States è stato visto come una risposta dei brand alla necessità di preservare il consenso in un contesto politico e culturale sempre più polarizzato come è appunto quello oltreoceano.
Come sottolinea in un articolo pubblicato sull’Harvard Business Review Paolo Iacci, presidente di Eca Italia e consulente di direzione, docente all’Università Statale di Milano e vice presidente nazionale di AIDP, sarebbe un errore liquidare il fenomeno come circoscritto ai soli Stati Uniti. “Alcune aziende europee – scrive Iacci nell’articolo – stanno già mostrando segni di rallentamento nelle politiche DEI. Sebbene il fenomeno non sia così marcato come negli Stati Uniti, anche in Europa si riscontrano difficoltà nel mantenere alto l’impegno su questi temi”.
Iacci, con cui abbiamo approfondito questi aspetti, spiega: “C’è sicuramente una differenza tra Microsoft, che ha annunciato di voler ridurre le risorse per le iniziative DEI, e le posizioni più nette di aziende come Harley-Davidson. Tuttavia, entrambe queste scelte riflettono un cambiamento importante, spesso ignorato dai commentatori italiani”.
Sempre nel suo articolo, Iacci cita anche uno studio dell’EY European DEI Index, che rivela che solo il 7% delle aziende in Europa promuove una cultura inclusiva in modo autentico, mentre un report di Culture Amp segnala una crescente sfiducia tra i dipendenti e i professionisti delle risorse umane rispetto all’impegno delle aziende verso la diversità.
Tra le cause principali, ricorda ancora Iacci sull’Harvard Business Review, viene indicata la cultura woke, un termine inizialmente usato per indicare la consapevolezza delle ingiustizie sociali, che ha progressivamente incluso temi come il genere, i diritti LGBTQ+, la disuguaglianza economica e negli ultimi anni è stato invece usato in modo negativo per criticare un eccesso di attivismo o una sensibilità esagerata su temi sociali e politici, considerata coercitiva.
Iacci mette però in guardia su un fenomeno più ampio: “La mia preoccupazione è che stia emergendo un disinvestimento sociale, che si riflette anche nelle aziende. Se questo fenomeno è già visibile in alcune parti del mondo, come appunto negli Stati Uniti, e in parte in Europa, dove le aziende stanno riducendo l’impegno su determinate questioni sociali, in Italia non è ancora così evidente, ma dobbiamo restare vigili, perché potrebbe essere solo questione di tempo e dobbiamo essere pronti ad affrontarlo”.
Il futuro del lavoro in Italia
Iacci fa un esempio concreto, ricordando come, secondo le più recenti proiezioni demografiche, nel 2040, a parità di regole, mancheranno all’appello circa tre milioni di lavoratori attivi. “Il tema” spiega Iacci “è stato ripreso anche nella sua ultima relazione dal governatore della Banca d’Italia, il quale suggerisce di intervenire su tre fronti: favorire l’occupazione femminile, supportare i giovani che non studiano né lavorano (circa 1,7 milioni) e incentivare l’immigrazione qualificata”.
“A tal proposito – continua Iacci – in Italia è stata introdotta una nuova normativa che permette l’ingresso non solo ai laureati, ma anche ai diplomati, purché abbiano almeno cinque anni di esperienza, un requisito che si riduce a tre anni nel settore dell’informatica. Questa nuova disposizione, però, non ha ricevuto molta attenzione sui media, e nonostante sia una misura importante che potrebbe fare la differenza non la conoscono nemmeno le aziende”.
Concentrarsi sui “bersagli grossi” e affrontare le priorità
In questo contesto, Iacci invita a concentrarsi sui “bersagli grossi”, ovvero sui temi concreti e urgenti. “Dobbiamo puntare su questioni fondamentali, come l’occupazione femminile, la flessibilità del lavoro e appunto la riduzione degli investimenti nelle politiche di diversità già visibili in Europa. Citando le parole di Barack Obama ‘questa idea di purezza, di non essere mai compromessi, di essere sempre politicamente ‘svegli’ e tutto il resto, dovrebbe essere superata in fretta. Il mondo è complicato e pieno di ambiguità’”. “Forse – conclude Iacci – è il caso di moderare certi atteggiamenti ideologici, ma senza rinunciare all’impegno di mantenere un approccio inclusivo nelle organizzazioni. Si affrontino le sfide determinanti e non ci si perda in battaglie superflue, per non perdere di vista i temi fondamentali per il futuro del lavoro e della società”.