Gig workers, il buco nero della legislazione italiana
I Gig Workers, i lavoratori al servizio on demand delle grandi piattaforme digitali, restano privi di un quadro contrattuale di riferimento e delle tutele legislative, protestano per chiedere più diritti. Ne abbiamo parlato con Guglielmo Loy, della Uil
Sono riders, autisti, ma anche grafici, traduttori, moderatori di forum e ricercatori. La categoria dei cosiddetti Gig Workers, ossia i lavoratori al servizio “on demand” delle grandi piattaforme digitali, è sempre più ampia e sempre di più composta non solo da giovani che si pagano gli studi, ma anche da adulti per cui questi “lavoretti” rappresentano l’impiego principale.
Secondo un’indagine del 2017 condotta dalla Uil il 45% dei lavoratori delle piattaforme ha più di 35 anni. Una platea che si allarga e che sempre di più chiede di vedersi riconosciuti maggiori diritti, in primis lo status di lavoratori dipendenti con tutte le tutele collegate: previdenza, infortuni, malattie, ferie, salario minimo, rimborsi. Pur essendo, infatti, giuridicamente autonomi e formalmente non vincolati a tempi e luoghi, questi lavoratori sostanzialmente dipendono dalle piattaforme digitali come Uber, Foodora, Deliveroo, Glovo e Just Eat.
Autonomi o subordinati?
È questo il nodo di fondo intorno a cui gira tutto il dibattito sui gig workers e sui loro diritti e su cui al momento né i sindacati né tantomeno la legge hanno saputo dare una risposta. Così in proposito ci ha detto Guglielmo Loy, segretario confederale Uil: “Il Jobs Act è nato già vecchio, incapace di fotografare e regolamentare un nuovo sistema economico che sfugge alla visione tradizionale dell’occupazione all’interno di un perimetro fisico, in fabbrica o in ufficio. Un sistema che – anche se ancora parziale nella nostra economia – è in preoccupante crescita e che non riguarda solo i riders ma anche tutti i clickworkers, gli operai del click che lavorano da casa davanti a un computer: un mondo che si è trovato senza un quadro normativo e contrattuale di riferimento. È necessario, dunque, costruire al più presto un sistema di tutele ad hoc che al momento non esiste e che dovrebbe prevedere per esempio un salario minimo e un’assicurazione pensionistica. Occorre uno strumento giuridico (potrebbe essere un nuovo tipo di voucher) che sia a metà strada tra la classica assunzione e il nulla assoluto che c’è adesso”.
Intanto una prima risposta alla questione l’ha data il Tribunale di Torino, che ha respinto il ricorso di sei fattorini di Foodora che si erano opposti al loro allontanamento avvenuto dopo gli scioperi del 2016 e avevano chiesto che venisse loro riconosciuta la qualifica di subordinati. Secondo i giudici torinesi i riders non sono lavoratori subordinati perché non sono obbligati a effettuare le consegne: senza obbligo non c’è assoggettamento al potere direttivo (elemento qualificante della subordinazione) e neppure continuità del rapporto. D’altra parte gli avvocati dei sei fattorini hanno ricordato come questi fossero controllati negli spostamenti attraverso il gps del cellulare e come la libertà di rifiutare una consegna sia limitata, visto che al terzo rifiuto i riders vengono fatti fuori.
In attesa di un riconoscimento giuridico-contrattuale, qualche piccolo passo sulla strada delle garanzie per i gig workers comincia a intravedersi. A dare l’esempio è Deliveroo, società londinese del food delivery, che ha annunciato un accordo in tutti i dodici Paesi in cui opera per introdurre un’assicurazione unica gratuita per tutti i suoi 35 mila riders, di cui 1.300 in Italia. L’assicurazione coprirà infortuni, danni a terzi e fino al 75% delle entrate medie giornaliere in caso di inattività temporanea fino a un massimo di 30 giorni. E ancora a Bologna la Riders Union, una delle prime associazioni di ciclofattorini italiani, ha firmato con Comune e sindacati confederali la “Carta dei diritti fondamentali del lavoro digitale nel contesto urbano” che prevede paga minima adeguata, niente cottimo, monte ore garantito, coperture assicurative, indennità maltempo e festivi e budget per la manutenzione dei mezzi e dello smartphone. Per la prima volta, dunque, nel nostro Paese si fissano una serie di tutele per i gig workers, degli standard minimi sotto i quali non si possa andare.