Generazioni a confronto & maturità manageriale
Complici l’allungarsi della vita lavorativa e una nuova prospettiva di work-life balance, per la prima volta in molte aziende ben cinque generazioni si trovano a lavorare fianco a fianco, influenzando così i concetti di seniority, condivisione e formazione. Ne parliamo con Anja Puntari, Senior Business Coach & Partner di Performant, nonché autrice del libro “Conoscere la giusta distanza – Sfide di management in un mondo complesso”.
Per la prima volta, cinque generazioni si ritrovano a lavorare insieme, creando un contesto manageriale all’insegna della varietà, derivato non solo da imprinting diversi, ma anche dalle differenze che da sempre caratterizzano le diverse generazioni, dallo stile della comunicazione, a bisogni e valori peculiari, a un diverso approccio al lavoro. Questo ha comportato il cambiamento di tantissimi punti di riferimento, di parametri e addirittura di intere sfere concettuali. A iniziare proprio dal concetto stesso di “seniority” come spiega a HR Link Anja Puntari: «Si tratta di un concetto complesso, non più collegato all’età quanto al knowledge: se un tempo, infatti, la conoscenza era legata all’esperienza, oggi non è detto che, in certi ambiti, ne sappia di più ichi ci sta da più tempo e il reverse mentoring ne è un’indiscutibile testimonianza. Inoltre, ora si riconosce anche il valore delle esperienze di vita vissuta, quelle che faccio nella mia sfera privata e che comunque impattano il mio lavoro, dandomi soprattutto una serie di soft skill utili – per esempio la capacità di affrontare in maniera matura le challenge del lavoro –.
Un ulteriore aspetto della seniority da non sottovalutare è la conoscenza che deriva dall’approccio orizzontale di scoperta del mondo, la maggior apertura culturale e mentale delle nuove generazioni, che le porta a viaggiare molto più delle generazioni precedenti e, per esempio, a parlare più lingue: questo le aiuta sicuramente a cogliere con più facilità il diverso e a capire subito che viviamo in un mondo interconnesso».
Viene allora da pensare che il reskilling e l’upskilling siano un processo continuo per le nuove generazioni: è così?
«Vorrei premettere che si tratta di processi attuali per tutte le generazioni. Al giorno d’oggi, una conoscenza hard diventa obsoleta molto velocemente, in due-quattro anni: dobbiamo aggiornarci tutti e continuamente, ma è fondamentale capire in quale ambito farlo per portare valore organizzativo vero all’azienda. La sfida attuale è infatti nella scelta delle innumerevoli possibilità di formazione che abbiamo e, soprattutto, nel comprendere “come” dobbiamo imparare. È un mindset che dobbiamo assumere tutti e che forse è più facile per le nuove generazioni, il cui percorso scolastico le ha orientate all’apprendimento costante».
Al manager oggi serve allora una grande capacità di autoanalisi e anche un pizzico di saggezza, è d’accordo?
«L’abilità di riflettere su se stessi e sui propri comportamenti è fondamentale per maturare psicologicamente e per fare passi avanti anche come manager: se conosco me stesso e le mie modalità di reazione, avrò più possibilità di seguire una strada adeguata per me, invece di rincorrere mete irraggiungibili e rischiare il burnout. Bisogna scegliere con saggezza la sfida adeguata sia come persona, sia a livello di team: se la sfida è di natura sbagliata, come ho già accennato, si rischia di creare danni seri a livello psicologico – perché le persone non si sentono adeguate – oppure si provoca noia e disaffezione – se la sfida è troppo semplice –: in entrambi i casi il risultato è un rallentamento dell’organizzazione.
Proprio la saggezza e la maturità manageriale mi consentono di uscire dal mio ruolo attuale per riflettere in maniera più ampia e ipotizzare una serie di scenari futuri differenti: anche se i tempi si sono accorciati, sarebbe un errore vedere solo nell’immediato e non chiedersi cosa accadrà nel long term, dove sarà l’azienda tra cinque o dieci anni».
Guardare al futuro, nel nostro mondo attuale potrebbe spaventare anche il manager più navigato…
«La maturità manageriale si esprime proprio anche nella capacità di gestire emotivamente un mondo che sta andando dalla parte sbagliata: devo avere la capacità di guardare in modo sereno e costruttivo, senza perdere il mio equilibrio interiore per guidare anche gli altri. È fondamentale affrontare le sfide senza chiudere gli occhi: cercare di capire cosa posso fare e dare il coraggio adeguato alle mie persone per agire in maniera serena e consapevole. Serve quindi una grande dose di consapevolezza, a più livelli: interna – relativa a me stesso –, esterna – il mio team –, ancora più esterna – il mondo globale».
Il ruolo del manager, alla luce di questi elementi, sembra essere cambiato, è corretto?
«I manager sono chiamati ad aver anche una responsabilità sociale in azienda: diventa importante anche come trattano le persone, cosa trasmettono indipendentemente dal lavoro – per esempio, l’ecosostenibilità e il rispetto ambientale sono sempre più richiesti alle aziende –.
Inoltre, anche la forte interconnessione che caratterizza il momento attuale si riverbera in azienda: la mia intera rete di contatti diventa uno strumento importante, il networking e le relazioni interpersonali costruttive – sia tra persone che hanno rapporti di lavoro, sia con persone afferenti la sfera privata – possono creare scambi e nuove connessioni anche in ambito professionale.
A tutto questo si aggiunge la capacità del manager di mettere a frutto le soft skill di ognuno e di gestirne in maniera ottimale la crescita, ma anche l’entrata e l’uscita in azienda: creare engagement e knowledge sharing, far crescere il senso di appartenenza, ma anche cogliere empaticamente le emozioni della persona che sta dall’altra parte, soprattutto nel caso della fuoriuscita dall’azienda, e aiutare il dipendente a gestire nella maniera più costruttiva possibile anche questo passaggio: oggi lasciarsi non deve essere una tragedia, anche perché le nostre strade potrebbero rincontrarsi».
Se dovesse dare un consiglio ai manager?
«Vorrei consigliare loro di dedicare tempo alla riflessione: partendo da chi sono e cosa voglio, via via fino all’ascolto e all’osservazione attenta di tutto quello che mi circonda; questo allenamento potrebbe diventare poi un modo di essere che mi porta quell’equilibrio e quella crescita psicologica fondamentali pe aiutare poi le mie persone a riflettere a loro volta.
Per farlo davvero, però, devo fermarmi, uscire dal fare costante, stare in ascolto con la forza di volontà di staccarmi per mettere a fuoco, devo prendere le distanze da tutto, spegnere tutti device per non farmi distrarre. Insomma, dobbiamo frequentare di più noi stessi in maniera sana. Solo così arriveremo alla maturità psicologica».