Gabrielli, Ceo People management: «Un’impresa non è sostenibile se non lo è il lavoro delle persone: l’aspetto sociale è dirimente per il futuro delle aziende»
Sempre più le imprese – e soprattutto le direzioni HR – sono chiamate a una gestione delle persone orientata a uno sviluppo interno sostenibile, che ponga attenzione all’impatto che la gestione del business ha sui dipendenti in primis. In questa prospettiva, quale ruolo gioca l’organizzazione aziendale? Quali sono le sfide manageriali per raggiungere concretamente i risultati in questo ambito? Ne abbiamo parlato con Gabriele Gabrielli, Ceo di People management lab e professore a contratto di Organizzazione e gestione delle risorse umane presso l’Università Luiss Guido Carli.
Criteri ambientali, di governance e sociali. I criteri Esg “guidano” gli investitori verso le imprese che operano in questa direzione. Ma – come sottolinea Gabriele Gabrielli, Ceo di People management lab – «l’impressione è che l’aspetto sociale resti pericolosamente indietro».
Cosa intende dire, professore?
«Non bisogna dimenticare che la prima sostenibilità dell’organizzazione dell’impresa è una sostenibilità interna, ovvero la sostenibilità del lavoro. Quindi è fondamentale il modo in cui i manager gestiscono l’organizzazione e le persone, insieme con la funzione dedicata alle risorse umane, laddove esiste».
Perché è importante focalizzare l’attenzione proprio su questo punto, ancora prima che su altri?
«Perché una cultura della sostenibilità aziendale non può non passare per una cultura della sostenibilità del lavoro e delle persone con cui si lavora. Bisogna anche ribadire che il paradigma della sostenibilità allarga la prospettiva, perché non si tratta più solo di pensare e ad organizzare in maniera sostenibili il lavoro con i propri collaboratori, ma all’interno di un sistema interconnesso dove vengono coinvolti tutti gli stakeholder, i fornitori, anche i più piccoli. L’ecosistema del lavoro diventa ancora più grande: non c’è impresa sostenibile se non pensa anche alla sostenibilità del lavoro. Questo concetto deve essere chiaro».
Qual è per lei una corretta definizione di sostenibilità del lavoro, quali le caratteristiche che dovrebbe avere?
«È il lavoro che mette al centro davvero il benessere della persona, inteso in senso integrale, ovvero psichico, fisico; un benessere emozionale. Inoltre, scendendo ancora più nel concreto e nell’operatività, un manager non è sostenibile se non presta attenzione al carico di lavoro, al pericolo di stress e burnout; sembra una considerazione desueta, ma invece sta alla base del concetto stesso di sostenibilità del lavoro. La società, oggi, sta mandando segnali molto forti che ci dicono che le persone stanno veramente riconsiderando il lavoro».
È un frutto della pandemia o si tratta di un trend che si stava già registrando prima?
«Siamo tendenzialmente portati a dire che tutto questo è stato cagionato dalla pandemia, ma esistono studi oltreoceano che fanno vedere, per esempio, che negli Stati Uniti il fenomeno della great resignation è nato diversi anni fa. Questo perché, evidentemente, per tutta una serie di variabili, di fattori molto complessi e articolati, le persone stanno riconsiderando, appunto, il loro concetto di posto di lavoro».
La pandemia è stata forse un po’ un detonatore?
«Esattamente. E oggi solo i ciechi non vedono che il mondo del lavoro è pervaso da un disagio crescente. Basta citare le indagini di Gallup sull’engagement. Le persone engaged sono davvero poche. Gli ultimi dati dicono che in Europa lo è l’11% dei lavoratori; l’Italia è un fanalino di coda, al 5%. Sono numeri che fanno riflettere. Ci si deve chiedere quando una persona è ingaggiata: lo è quando riesce ad avere una relazione positiva con il proprio capo, quando ricopre ruoli per cui si sente vocata: questi sono i fondamentali di una buona gestione delle persone. Ecco, allora, essere sostenibili significa rimettere al centro queste logiche e anche il fatto che i manager si devono interrogare su che leve hanno per creare e costruire. Per raggiungere l’obiettivo può certamente essere utile osservare fuori da noi cosa accade in altre imprese, ma non ci si può esimere da guardare dentro la propria azienda, osservandola, come si diceva prima, allargando lo sguardo, e, ad esempio, pagando le fatture dei fornitori nei tempi giusti…».
Citava il carico di lavoro: cos’è, per lei e quanto pesa, nello stress causato dal lavoro, la penuria di personale?
«Lo stress può essere provocato da tanti fattori e uno di questi può senz’altro essere l’effettivo sovraccarico di cose da fare, conseguenza di un dimensionamento non corretto. Se si tratta di una fase temporanea, è un conto, ma se è lo standard, allora diventa un problema. Anche in questo caso, un’impresa che si dice sostenibile deve chiedersi se il sovraccarico e la carenza di risorse sono scelte dettate dalla volontà di risparmiare sui costi del lavoro o se si hanno difficoltà nella ricerca di persone. Va da sé che un’azienda sostenibile deve garantire una corretta retribuzione ai suoi impiegati, in linea con le mansioni svolte e il marcato. L’analisi è molto complessa, ma occorre sottolineare che questi aspetti devono essere rimessi sul tavolo, devono essere una priorità. Così come lo deve essere interrogarsi su quale sia la reale funzione dell’impresa. Bisogna dirlo chiaramente: un’impresa che nasce e che vuole vivere soltanto per massimizzare il ritorno per i suoi azionisti non potrà mai essere sostenibile, perché sceglie di sacrificare il benessere per l’utile».
I manager stanno capendo nel profondo che il cambio di mentalità è necessario? E quanto sono i giovani a spingere questo cambiamento?
«Sono prudentemente fiducioso. I manager stanno vivendo una transizione, e quindi anche il disorientamento che ciò porta con sé è comprensibile; occorre accompagnarli a rimettere in fila le priorità e a comprendere le implicazioni dal punto di vista manageriale di un’impresa sostenibile. Dovrebbero ricominciare a socializzare, a condividere riflessioni ed esperienze. I giovani – al di là dei pregiudizi e degli stereotipi che si possono avere su di loro – stanno chiaramente dicendo come la pensano. A differenza delle precedenti generazioni utilizzano un ranking diverso, e per loro, lavorare in un’impresa che produce utilità sociale, è un valore che sta molto in alto nella scala. Così come è importante lavorare in un’impresa che consente loro di svilupparsi professionalmente: ciò non significa meramente “fare carriera”, ma proprio evolversi e raggiungere una corrispondenza tra la crescita professionale e la gratificazione, il benessere interiore. È più facile, insomma – diversamente dalle generazioni che li hanno preceduti – che i giovani, oggi, buttino giù dalla torre il posto fisso, alla ricerca del benessere. Ecco: i manager devono cercare di adattarsi, di accogliere questa prospettiva, se vogliono trattenere i talenti, offrendo loro degli strumenti perché rimangano».
Quali?
«Ad esempio, permettere loro di fare esperienze, e, soprattutto, conoscere davvero le persone, costruire con esse una relazione, che parte inevitabilmente dall’ascolto. Questo è segno di sostenibilità. Occorre, quindi, ridisegnare completamente la filosofia manageriale».