Formazione, spazio alla creatività e a modalità nuove per coinvolgere e ingaggiare. Matilde Marandola (Aidp): «Anche noi Hr dobbiamo metterci in discussione».
Investire in formazione – rendendola strutturale – è uno dei temi in cima all’agenda delle imprese, strada maestra verso un mercato del lavoro più stabile, più digitale, più preparato, più inclusivo. Ma quali sono le condizioni che permettono alla formazione di innescare il cambiamento e quindi di generare valore in azienda? Come aumentare il ROI delle attività formative? Di questo e molto altro abbiamo parlato con Matilde Marandola, Presidente di AIDP, che sarà tra i patrocinatori della prossima edizione di Officina Risorse Umane, in programma il 19 e 20 novembre a Firenze.
Circa 4 mila associati dislocati in diciassette gruppi regionali per AIDP, l’Associazione italiana direzione del personale: una condizione che permette di «avere un osservatorio particolarmente interessante», come riferisce Matilde Marandola, che dell’associazione è presidente. Multinazionali, grandi e piccole aziende, family company, la «formazione è sempre una leva strategica».
Presidente Marandola, sono i giovani a richiederla soprattutto?
«Certamente, in termini di employer branding è un elemento di importante attrattività, ma è interessante anche sul piano della performance. Credo, infatti, che la formazione abbia un ruolo cruciale lungo tutto l’arco della vita, ma il modello deve essere nuovo, rispetto a ciò a cui eravamo abituati prima della pandemia. Autorità e controllo non funzionano più e ci stiamo orientando verso un modello di leadership empatica. Quindi, con questi paradigmi la formazione deve essere sempre più mirata su competenze specifiche, ma anche molto contaminata nelle modalità. Si parla, per questo, anche di formazione unconventional che, da un punto di vista metodologico, prende spunto dall’arte, dalla letteratura, dalla musica, dalla cultura, dalle tecnologie, dal teatro».
Insomma, il modello tradizionale, in cui uno parla e tanti ascoltano non può più esistere…
«Come anche a scuola e all’università: occorre innovare, mettersi in discussione. Io credo molto anche nel mentoring, nei processi di apprendimento che lavorano sulla consapevolezza e anche sul divertimento. L’aspetto ludico della formazione è assolutamente pregnante. La formazione noiosa non funziona, bisogna trovare la chiave per aprire la porta del coinvolgimento. Quindi, via libera anche alla creatività…».
Come stanno recependo il cambiamento le aziende?
«Oggi nelle aziende non è più possibile scegliere: se non si coinvolge, se non si forma, se non si va verso l’innovazione e la creatività, le persone se ne vanno. Certo, resta il problema del mismatch tra domanda e offerta: si cercano persone e non si trovano. Ma i lavoratori non sono più disposti a “stare” in una situazione di sofferenza. Il tema non è solo generazionale, ma generale. Noi direttori del personale dobbiamo metterci in discussione: dobbiamo ascoltare le persone, capirle e allontanarci da soluzioni standard e considerare le persone nella loro unicità. Lo vediamo anche nell’analizzare lo smart working: non può valere “sì o no per tutti”; bisogna ascoltare cosa la singola persona pensa sia meglio per sé. Ciò implica un grande lavoro per i direttori del personale, tante interviste da fare, ma si deve agire in questa direzione e mettere realmente le persone al centro».
Tutte le aziende hanno gli strumenti per fare questo salto, anche le più piccole, quelle familiari?
«È evidente che, sebbene la necessità di cambiamento interessi tutti, in alcuni casi il passaggio deve essere spinto. Poi è altrettanto vero che non tutte le imprese possono permettersi i mezzi per agevolare il cambiamento, ma occorre ricordarsi che innanzitutto il passaggio è culturale.
E questa riflessione vale sia per le aziende più piccole, che magari non hanno mezzi, così come per le multinazionali, che talvolta tendono a standardizzare; ma la standardizzazione non funziona più: funziona una leadership di servizio basata su ascolto ed empatia, un leader coach che sa fare domande più che dare risposte».
In quest’ottica, qual è il ruolo del business?
«Investendo in formazione, le persone stanno meglio e sono anche più produttive. Ma questo risultato si può ottenere solo lavorando sull’ingaggio che passa per l’ascolto. La formazione deve essere progettata in funzione di input che vengono dati dalle persone, non deve essere calata dall’alto».
Forse le persone non sempre riconoscono quali sono le proprie esigenze…
«Può accadere che non tutti riescano a comprendere immediatamente ciò di cui hanno bisogno. Ma dall’ascolto e dal confronto può emergere un’esigenza di cui si prende consapevolezza. L’epoca delle certezze è finita, come quella del controllo».
Che ruolo giocano i fondi interprofessionali?
«Abbiamo partnership molto strette con i fondi interprofessionali: lavorando insieme si riesce ad essere più performanti. Stessa cosa vale per il Governo: è bene collaborare affinché non passino leggi poco connesse con la realtà».