Il fenomeno expat: cervelli,e non solo, in movimento verso l’estero
Sono 6 milioni gli italiani che vivono all’estero. Negli ultimi sei anni hanno lasciato il Paese moltissimi giovani e laureati, ma ci sono anche over 40 con basso titolo di studio che si mettono in gioco oltreconfine. La sfida è quella del rientro e dell’attrazione dei talenti e della valorizzazione degli expat. Ne abbiamo parlato con Luigi Maria Vignali, direttore per gli Italiani all’Estero della Farnesina.
Sono ancora tanti gli italiani che vanno all’estero, temporaneamente o definitivamente. Negli ultimi cinque anni 224.000 italiani si sono trasferiti stabilmente oltre confine. Ogni anno si spostano 33.000 diplomati (un dato cresciuto del 32,9% in 5 anni) e 28.000 laureati (+41,8% rispetto a 5 anni fa). Un fenomeno complesso, che impatta sull’economia e sulla competitività del sistema Paese, che non può essere esemplificato solo con l’etichetta “fuga dei cervelli”. La scelta di espatriare non è direttamente correlata alla mancanza di opportunità di lavoro: delle 57 province con il tasso di espatri più alto, 45 hanno anche un tasso di occupazione più alto della media. Abbiamo chiesto a Luigi Maria Vignali, Direttore Generale per gli Italiani all’Estero e le Politiche Migratorie della Farnesina, di inquadrare per noi il fenomeno degli italiani all’estero.
Vignali, quanti sono gli italiani all’estero?
Sono sempre di più. Negli schedari consolari ne contiamo 6 milioni: la seconda regione d’Italia dopo la Lombardia, prima di Lazio e Campania. Tanti italiani di 2°, 3° o 4° generazione ma anche tanti italiani che ancora partono: negli ultimi 6 anni gli iscritti negli schedari consolari sono aumentati di 1 milione.
Chi sono i nostri connazionali che espatriano?
Sono certamente persone con una istruzione mediamente più elevata di quelli che emigravano in passato: tra il 30% e il 35% sono laureati. I diplomati sono circa il 30%. Poi c’è la fascia più ampia, superiore al 35%: persone con la licenza media o nemmeno quella. Una grande massa di persone che parte per mettere in gioco la propria vita per un futuro migliore, pur non avendo competenze elevate. Sono persone a cui dobbiamo guardare con attenzione, perché rischiano di diventare preda di circuiti di sfruttamento, soprattutto se non sono pronti dal punto di vista linguistico.
Sembra di sentir parlare dei migranti che arrivano in Italia…
Qualche similitudine c’è ma anche grandi differenze. La più grande è che i nostri connazionali partono tutti con visti regolari e con prospettive occupazionali spesso già individuate.
Torniamo ai numeri, vanno via solo i giovani?
Molti, circa la metà, hanno meno di 40 anni e sono quelli a cui ci riferiamo quando parliamo di fuga di cervelli. Però dobbiamo anche considerare che c’è una quota rilevante, circa il 45%, di persone con più di 40 anni, alcuni poi se ne vanno con l’intera famiglia. Poi c’è un fenomeno relativamente nuovo, che riguarda i pensionati che vanno via in Paesi dove c’è una situazione fiscale agevolata.
Come stanno gli italiani all’estero? Riescono a realizzare i loro progetti di vita?
Non ho un dato statistico, ma posso dire con cognizione di causa che stanno mediamente bene. Vivono tre stati d’animo: il primo, e prevalente, è quello della nostalgia. La gran parte di quelli che sono espatriati da poco vorrebbe tornare in Italia. Assieme alla nostalgia c’è un risentimento, anche forte, verso la Patria. È dovuto al fatto di essere dovuti partire e di non aver visto riconosciuto il proprio merito. Il terzo stato d’animo, collegato al risentimento, è la voglia di riscatto: il successo che molti italiani ottengono all’estero è dovuto anche a questa spinta.
Parlare di “fuga di cervelli” è la descrizione di un fatto reale o è una eccessiva semplificazione?
Preferisco parlare di cervelli in movimento, non di fuga. Fare un’esperienza all’estero, soprattutto al tempo di oggi, è un fatto naturale, un rito di passaggio. Andare all’estero, arricchirsi dal punto di vista culturale, professionale e linguistico è un’esperienza che dovrebbero fare in tanti. Il problema è che non tornano indietro: è un investimento grandissimo fatto dal nostro paese che va perduto. Ci dobbiamo interrogare su come farli rientrare dopo che si sono arricchiti ulteriormente di esperienze e anche come valorizzare quelli che restano all’estero in termini di soft power italiano nel mondo. I nostri connazionali nel mondo sono gli alfieri del vivere all’italiana. Per questo, attraverso ambasciate e consolati stiamo lavorando per mettere in rete anche i nuovi esponenti delle comunità italiane nel mondo.
C’è una ricetta per far rientrare i cervelli?
Innanzitutto ricordo che ci sono agevolazioni già previste. Ma oltre agli incentivi fiscali, è necessario un cambiamento culturale a partire dalla piena valorizzazione del merito. Dobbiamo essere in grado di meritarci la loro fiducia.
Oltre a far rientrare i talenti espatriati, c’è anche un tema di attrazione di talenti da altri Paesi?
L’Italia attrae pochi talenti, meno di altri Paesi. Sicuramente bisogna fare di più anche in questa direzione che non è disgiunta da quella dell’impegno per il rientro dei cervelli. Se offriamo qualità di vita e opportunità di carriera, saremo in grado di attrarre talenti e far rientrare i tanti giovani italiani espatriati.
Cosa ha da guadagnare l’Italia dal rientro dei cervelli?
Tanto, in primis l’innesto di uno spirito positivo nella società. Gli italiani che sono andati all’estero hanno saputo e dovuto mettersi in gioco, sono più aperti al cambiamento, all’innovazione, al saper guardare oltre… Qualità che spesso mancano nel nostro Paese: siamo più concentrati a difendere il recinto, che a guardare oltre lo steccato.