Emergenza Covid: smart working o emergency working?
Una analisi degli avvocati Ciro Cafiero e Paola Pezzali sui provvedimenti e i cambiamenti nel mondo del lavoro dovuti alla pandemia: non è lavoro agile ma una nuova “creatura”, perché mancano gli aspetti peculiari che regolano il lavoro smart. Una condizione da agevolare fiscalmente, alla stregua del welfare, perché limita il ricorso alla cassa e mantiene la produttività.
di Paola Pezzali e Ciro Cafiero
Con la legge n. 81 del 22 maggio 2017, l’Italia ha introdotto nella legislazione nazionale la categoria dello smart working, un istituto già conosciuto in ambito europeo e maggiormente attuato negli Stati Uniti d’America, e che oggi, in emergenza sanitaria del Paese, sembra lo strumento idoneo a coniugare, per quanto possibile, le esigenze economiche delle imprese e la tutela della salute dei lavoratori e dei dipendenti in senso lato.Tuttavia è necessario domandarsi se l’istituto, oggi attuato in una fase emergenziale e richiamato nei DPCM del 4 e dell’8 marzo 2020, configuri la modalità di lavoro agile prevista dalla legge n. 81 del 2017, o, piuttosto, una diversa forma di lavoro in uno stato emergenziale. Il perimetro legislativo dello smart workingLa legge n. 81 del 2017 all’art. 18 definisce il lavoro agile come una modalità flessibile di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato, allo scopo di incrementare la produttività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. Gli articoli dal 18 al 26 definiscono i confini del lavoro agile, stabilendo che è quel lavoro che può essere svolto in parte all’interno dei locali aziendali e in parte all’esterno, e dunque non solo dall’abitazione del lavoratore, secondo gli orari individuati nel contratto di lavoro e in assenza di una postazione fissa.Lo smart working ha dunque come presupposto quello di promuovere forme flessibili di lavoro agile, allo scopo di incrementare la produttività e nel contempo agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, sempre però nella cornice del lavoro subordinato.
La fattispecie si caratterizza per essere basata sull’accordo tra le parti, sulla piena e completa uniformità della modalità di svolgimento della prestazione – in termini di orario – con quella svolta in azienda, sulla piena e completa omogeneità della normativa retributiva, fiscale e previdenziale con la fattispecie del lavoro subordinato, sulla uniformità della disciplina applicabile in materia di sicurezza sul lavoro, e ancora sull’obbligo in capo al datore di lavoro di fornire i dispositivi tecnici necessari per lo svolgimento della prestazione in modalità di lavoro agile.
Le nuove disposizioni
A seguito dello stato di emergenza sanitaria venutosi a creare con la diffusione del coronavirus, lo smart working è stato individuato, da subito, tra gli strumenti idonei a contenere il contagio evitando i contatti personali.
Le nuove disposizioni, tuttavia, precisano che la modalità di lavoro agile può essere applicata dai datori di lavoro per la durata dello stato di emergenza (per sei mesi, come previsto dalla delibera del consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020) a ogni rapporto di lavoro subordinato, anche in assenza dell’accordo individuale.
In sostanza lo stato emergenziale e la necessità di garantire il distanziamento, se da un lato hanno reso necessario coniugare le esigenze sanitarie e il diritto alla salute costituzionalmente garantito con le esigenze economiche e la continuità dell’attività amministrativa statale, dall’altro hanno eliminato il fondamento stesso della tipologia del lavoro agile come previsto dalla legge 81 del 2017 – ovvero l’accordo tra le Parti – creando di fatto un nuova tipologia di smart working, che potremmo definire emergency work, ontologicamente diversa rispetto alla fattispecie contenuta nella disposizione normativa vigente.
Differenze tra smart work ed emergency work e possibili zona grigie
A prescindere allo stato dalle problematiche che possono derivare dall’aver derogato attraverso una fonte legale secondaria, quale per l’appunto il DPCM, il contenuto di una norma legislativa come quella relativa al lavoro agile, contenuta negli articoli dal 18 al 26 della legge n. 81/2017, è innegabile che la tipologia con cui il Governo ha inteso regolamentare, in via prevalente, lo svolgimento delle attività lavorative nella fase emergenziale è “una nuova creatura”.
L’art. 18 della legge n. 81 del 2017, presuppone infatti la sussistenza dell’accordo scritto, atto necessario sia a fini probatori, che per la regolarità amministrativa. L’accordo, infatti, costituisce la fonte delle modalità di svolgimento della prestazione, disciplina il luogo esterno all’azienda ove verrà svolta la prestazione, modula l’esercizio del potere disciplinare, di controllo e direttivo del datore di lavoro, individua i tempi di riposo e le modalità di disconnessione, stabilisce le caratteristiche della formazione a distanza, indica e dettaglia gli strumenti messi a disposizione del lavoratore, sancisce le condotte del lavoratore nello svolgimento della prestazione a distanza dalla cui violazione potranno derivare profili sanzionatori, e da ultimo, ma di primaria importanza, individua i rischi cui potrà incorrere il lavoratore commisurati agli spazi e ai tempi dello svolgimento della prestazione al di fuori dell’Azienda o dell’Ente Pubblico.
Sotto tale profilo non va dimenticato che la legge n. 81 del 2017, all’art. 22, mantiene inalterati gli obblighi in materia di sicurezza disciplinati dal decreto n. 81 del 2008, con le precisazioni dettate dalla circolare Inail n. 48/2017, gravando dunque il datore di lavoro di tutte le responsabilità connesse all’attuazione delle misure di prevenzione, della garanzia del buon funzionamento degli strumenti tecnologici assegnati, della manutenzione degli stessi. Ai sensi dell’art. 23 comma 2 della Legge n. 81/2017, permane inoltre la tutela contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali dipendenti dai rischi connessi alla prestazione lavorativa svolta in modalità agile.
Non vi è chi non veda che aver eliminato l’accordo tra le Parti – lo strumento attraverso cui regolamentare gli aspetti peculiari dello svolgimento della prestazione – impedisca automaticamente anche l’applicabilità di quella parte delle disposizione contenute nella Legge n. 81 del 2017, che trovano proprio nell’Accordo la loro fonte regolamentare.
C’è da chiedersi, infatti, quale possa essere il potere disciplinare o direttivo che potrà esercitare il datore di lavoro in assenza di specifici accordi, nonché quale possa essere la responsabilità cui verrà chiamato il datore di lavoro che, nella maggior parte dei casi, non ha nella situazione di pandemia fornito gli strumenti per lo svolgimento della prestazione, in particolar modo per quanto concerne la Pubblica Amministrazione.
E ancora, in che modo potrà ritenersi responsabile il datore di lavoro sotto il profilo della sicurezza, non avendo avuto modo, tenuto conto della situazione emergenziale che impedisce di fatto gli spostamenti, di visionare alcunché del luogo ove la prestazione verrà svolta?
È innegabile che le criticità sopra rappresentate potranno divenire insormontabili qualora – come sopra indicato – non si approcci al lavoro agile disciplinato nei DPCM del 4 e dell’8 Marzo 2020 come una nuova forma di emergency work di durata limitata, strettamente connessa allo stato di emergenza.
Lo smart working come strumento di welfare
Se tale è la necessaria impostazione da seguire, sarebbe a questo punto utile immaginare questo nuovo, diverso e temporaneo strumento con finalità proprie, strettamente connesse al periodo di emergenza pandemica, cercando di sfruttarne al meglio, se pur nel limitato periodo, alcune potenzialità.Come è noto, il legislatore, con la Legge n. 81 del 2017, ha perseguito nella costruzione dello smart working l’intento di scongiurare il rischio che il lavoro agile rimanesse assoggettato sul piano fiscale e contributivo a una diversa disciplina rispetto quella applicata al lavoro subordinato tout court. Sennonché, a ben vedere, la sfida sul lavoro agile si gioca proprio – oggi più che mai – sul piano fiscale e previdenziale, ovvero nell’individuazione di misure fiscali e contributive che possano rappresentare una certa forma di premialità, a favore di quelle imprese, soprattutto nel settore privato, che in questo momento di particolare complessità economica e sociale utilizzino tale strumento piuttosto che ricorrere agli ammortizzatori sociali. Da questo punto di vista non sembra sufficiente considerare la retribuzione del lavoratore agile come assoggettate all’imposta forfettaria per il premio di produttività, ma diviene fondamentale introdurre misure quali ad esempio la detassazione integrale delle quote della retribuzione attraverso il riconoscimento della sua natura di strumento di welfare, in questo caso di welfare a favore dello Stato, che riduce in tal modo la platea dei soggetti percettori dei fondi di integrazione salariale.Riconoscendo allo smart working la natura di welfare si riuscirebbe a bilanciare l’esigenza di una convenienza economica immediata per l’impresa in crisi, unitamente a una maggiore produttività nel breve periodo, e nel contempo a garantire la tenuta economica e occupazionale del personale, in un’ottica di rilancio dell’economia del Paese. Un’evoluzione significativa, dunque, dell’impostazione tradizionale delle relazioni collettive di fronte alle situazioni di crisi.