Digitalizzazione ed employability, quale relazione
La pandemia ha spinto il sistema impresa (aziende, lavoratori, sindacati) a dare un senso concreto alla digitalizzazione, cambiando non solo il modo di lavorare, ma anche lo spazio e la “geografia” del lavoro. Ma quali sono gli strumenti e le competenze che devono accompagnare questa trasformazione? Quali sono i suoi effetti nei rapporti interni all’azienda e in quelli con il territorio e le istituzioni? Può tutto questo diventare un driver di trasformazione dell’employability? Ne abbiamo parlato con Cetti Galante, CEO di INTOO (Gi Group Holding).
Siamo in un periodo di trasformazione, accelerato dalla pandemia e amplificato dal PNRR: i ruoli evolvono velocemente e le competenze diventano presto obsolete. In questo panorama, la funzione delle aziende è basilare, sia nel mettere le persone in grado di capire quali skill rimangono fondamentali e quali è necessario acquisire, sia nel comunicare la propria business strategy e come la direzione presa si riverbererà in maniera sfidante sui ruoli aziendali. Ça va sans dire che la formazione diventerà sempre più un elemento cruciale nella vita lavorativa di ognuno e che soprattutto l’employability rientra nella sfera del nostro controllo: «Le persone devono attivarsi e innescare processi di autoformazione, senza aspettare che sia l’azienda a erogarla» afferma Cetti Galante, CEO di INTOO. «Tra le skill che sarà necessario acquisire, ci sono sicuramente flessibilità, proattività, e apertura verso le novità e i cambiamenti – prosegue Galante –; di contro però, le aziende devono essere trasparenti e comunicare intenti e direzioni prese. Inoltre, per la prima volta assistiamo a una forte carenza di personale, soprattutto di figure legate alla logistica e al digitale ma non solo, che pone ancora di più l’accento sulla workforce aziendale: per questo motivo si sta accentuando il fenomeno della mobilità interna, ovvero lo spostamento orizzontale di persone che evolvono e passano da un ruolo all’altro in azienda o, al contrario, cambiano mansione proprio perché non sono in grado di attuare il reskilling nei tempi e nelle modalità necessarie per mantenere il proprio ruolo che nel frattempo è cambiato».
Ha accennato al fenomeno della scarsità di profili, logistici e digitali in primis ma anche di ruoli non tecnologici, dagli autisti agli stagionali: quali misure si possono mettere in atto per contrastarlo?
«Si tratta di un fenomeno che caratterizzerà i prossimi vent’anni e che obbliga a diverse azioni formative: penso per esempio ad attività di reskilling di persone, come ad esempio i disoccupati di lungo periodo, che possono acquisire con corsi specifici nuove competenze; anche la scuola, se sostenuta dai giusti finanziamenti, può fare la sua parte, portando i ragazzi verso professioni digitali, tecniche e scientifiche: gli ITS sono fondamentali per l’occupabilità e hanno ancora margini di sviluppo nel nostro Paese, se pensiamo che in Italia formiamo ventimila ragazzi l’anno – ragazzi che trovano subito lavoro – e in Germania quattrocentomila; bisogna incoraggiare, sensibilizzando anche il legislatore, forme di lavoro che consentano di lavorare anche solo brevi periodi, come la somministrazione, che fanno curriculum e aprono alla stabilizzazione. È tutto il sistema che deve modificarsi e che dovrà necessariamente prevedere una nuova forma di collaborazione tra pubblico e privato, in una logica di sussidiarietà e non di competizione».
Employability 2022-2026 è l’evento che si è tenuto a metà settembre e che ha trattato tutte queste tematiche: ce lo racconta?
«L’elemento interessante dell’evento è stata la possibilità di ascoltare tre punti di vista differenti. Abbiamo infatti avuto tre tavoli di lavoro, per un totale di nove relatori, che ci hanno restituito rispettivamente il punto di vista delle aziende, quello delle istituzioni e quello dei sindacati. A tal proposito, i tre sindacalisti presenti hanno affrontato il dialogo con una maturità esemplare, comprendendo bene l’importanza del loro ruolo nell’accogliere le sfide attuali mettendosi accanto alle aziende e non contro. Tra i temi toccati, le nuove politiche attive, una nuova concezione del reddito di cittadinanza (che dovrebbe diventare un supporto alla povertà e non un supporto ai disoccupati di lungo periodo: per questi ultimi ci vogliono politiche attive efficaci capaci di riportare le persone nel mondo del lavoro nel minor tempo possibile. Noi per esempio facciamo outplacement e in media riportiamo le persone nel mondo del lavoro in cinque-sei mesi, evitando quindi i fenomeni di lavoro nero e simili: attività di questo tipo andrebbero incoraggiate. Voglio dare un dato significativo: ogni 150mila lavoratori supportati con l’outplacement lo Stato risparmierebbe quasi un miliardo di euro di Naspi, perché noi riportiamo tutti sul mercato in sei mesi circa – il nostro target sono i 50enni – contro i 12-15 che impiega chi cerca lavoro da solo: pensiamo a questa cifra rapportata ai tre milioni e mezzo di lavoratori che cercano un’occupazione».
Tante persone in cerca di un’occupazione dunque, ma anche tante aziende in cerca di personale: quali sono secondo lei le nuove competenze che soprattutto chi guida le persone deve sviluppare?
«Quelle davvero imprescindibili sono la capacità di accogliere il cambiamento e la volontà di formarsi. Per i leader poi, che devono trascinare gli altri e che devono affrontare grandi sfide, è necessario sapersi aprire all’ascolto e uscire dagli stili di leadership puramente gerarchici e di controllo muovendosi invece sulla fiducia, certi che le persone che hanno l’opportunità di lavorare parte del loro tempo da remoto accrescono la responsabilizzazione, la maturità e la capacità di lavorare per obiettivi, a vantaggio della produttività aziendale. L’ibrido non deve essere considerato solo un taglio di costi, ma serve a far maturare le persone. Fondamentale è anche il digital mindset: i leader sono chiamati a rivedere i processi in una logica di uso delle tecnologie – app, piattaforme, schedule vari –: i ruoli si devono svuotare di azioni ripetitive e manuali e acquisire sempre più valore; bisogna attuare uno shift verso l’alto di tutti i ruoli e rivedere i processi in una logica di efficacia grazie alla tecnologia, che non porta via posti di lavoro, al contrario: ne richiederà un numero maggiore degli attuali e di maggior valore. Un’altra skill necessaria è il “solution thinking”, il pensare per soluzioni: i leader devono evitare di dire che qualcosa non si può fare o che rappresenta un problema, perché la soluzione c’è sempre e va solo individuata, basta saper trasformare le sfide in opportunità. Ci vuole poi una governance non rigida, da assestare con continui fine tuning e con grandissima agility. Infine, bisogna uscire dalle logiche di breve periodo che ci hanno guidato dal 2008 in avanti e costruire politiche di lungo periodo anche nell’incertezza, che riescano a porre le nostre aziende in una visione strategica di più ampio respiro temporale: costruire, costruire sempre».
In estrema sintesi, dunque, qual è la sua ricetta per il futuro dell’employability?
«Tre parole chiave: autoconsapevolezza, proattività, responsabilizzazione; abbiamo bisogno di dinamismo, di un atteggiamento non passivo sia da parte di chi lavora sia di chi non lavora; con le aziende che devono però assumere il ruolo di facilitatrici con la loro chiarezza comunicativa».
Qui la registrazione completa dell’evento: https://youtu.be/ayNKFDqgsmk