Demografia, il mega-trend che le Hr devono monitorare
Intervista a Mark Esposito, Professore di Economia alla Harvard University, che interverrà allo European Hr Directors Summit (Milano, 18-19 giugno), evento di riferimento per tutti coloro che si occupano di risorse umane, organizzato da Business International e giunto alla quarta edizione. Evento del quale siamo media partner
Pubblichiamo l’intervista realizzata da Matteo Castelnuovo a Mark Esposito, Professore di Economia alla Harvard University, e pubblicata su www.bimag.it. Mark Esposito sarà ospite dello European Hr Directors Summit (qui Info e iscrizioni) organizzato da Business International, un appuntamento che ha l’obiettivo di fare il punto sull’impatto della tecnologia per la gestione delle risorse umane. Ma non solo, si parlerà anche dei mega trend da monitorare per migliorare la qualità del lavoro.
Di seguito l’intervista.
Esposito, nella sua carriera, da esperto accademico di mega-trend economici è diventato anche imprenditore grazie al progetto DRIVE. Probabilmente questa è la migliore conferma empirica di ciò che diceva, non crede?
«Io e Terence Tse lavoravamo insieme già da 12 anni quando, nel 2015, ci siamo trovati a Singapore per un convegno e davanti a noi abbiamo visto oltre 150 manager che, discutendo del futuro, si dicevano estremamente preoccupati. Ascoltandoli parlare ci siamo resi conto che in realtà tutti avevano molta ansia su quello che sarebbe accaduto, di lì a poco, a causa delle grandi trasformazioni che stavano iniziando ad affacciarsi sui mercati proprio in quel periodo e di cui oggi notiamo i primi veri impatti sulle economie mondiali. Quindi, ci è venuta l’idea di approfondire questo aspetto e di capirne le origini. In un anno abbiamo intervistato 75 decision maker e amministratori delegati di grandi enterprise a livello globale e abbiamo scoperto che la demografia, la mancanza di risorse, le situazioni d’ineguaglianza, la volatilità dei mercati e i nuovi modelli delle economie emergenti erano i fattori scatenanti di quelle rivoluzioni che creavano vere e proprie fobie a questi professionisti. Così, abbiamo voluto creare un algoritmo che potesse “guidare” la nostra visione per poter comprendere meglio le possibili traiettorie di una curva evolutiva e innovativa che oggi è sostanzialmente impossibile prevedere completamente a causa del forte impatto che la tecnologia ha sulla nostra società moderna».
È stato allora che è nato DRIVE?
«Esatto. Da questo progetto, poi, abbiamo pubblicato il nostro primo libro e abbiamo fondato la Nexus Frontier Tech. Una società che oggi propone soluzioni di intelligenza artificiale alle aziende e offre lavoro a 120 persone in tutto il mondo. Da questa esperienza, inoltre, proprio nei giorni in cui sarò in Italia per lo European HR Directors Summit, sarà pubblicato anche il nostro secondo lavoro editoriale che abbiamo intitolato “AI Republic”. Ovviamente, però, il nostro impegno con DRIVE non si fermerà qui. Da una parte continueremo a lavorare per ampliare gli orizzonti della nostra attività commerciale, anche forti dell’esperienza accumulata in questi anni nel mondo dello sviluppo di intelligenza artificiale. Dall’altra, invece, proseguiremo con la nostra ricerca, aggiornando costantemente i dati utili al nostro algoritmo per comprendere sempre meglio le possibili traiettorie del futuro».
Nella sua curva personale e professionale, avrebbe mai detto di diventare un imprenditore?
«No mai. Tra l’altro questi ultimi quattro anni sono stati fondamentali per me a livello professionale, anche perché ho capito cose che come accademico non avrei mai potuto comprendere a fondo».
Cosa intende?
«In università, di solito, ci si pongono grandi domande, ma poi manca la conversione di questi quesiti in progetti di vita reale. Risposte concrete che possano proporre la soluzione di un problema o di un bisogno».
Qual è quindi l’aspetto più importante che ha approfondito in questo periodo?
«Partendo dal fatto che, grazie all’uso dell’intelligenza artificiale, abbiamo potuto notare una forte correlazione tra l’informazione, le fake news, i movimenti di anti-establishment in crescita e i fattori rappresentati da DRIVE, ciò che ci ha sorpreso di più è stato comprendere che il nostro algoritmo ci stesse dando oggettivamente una risposta al motivo per cui sono nate queste trasformazioni a livello globale, che poi si sono connesse a importanti fratture a livello sociale. La creazione di questi cinque macro-gap, infatti, impatta sulla società e si lega indissolubilmente al contesto quotidiano che viviamo, in modi che non immagineremmo mai».
Cercando di fare un esempio concreto, qual è secondo lei la traiettoria che il mondo del lavoro in Italia potrebbe prendere nel prossimo periodo, dopo aver passato un forte momento di transizione dalla ricerca del posto fisso al fenomeno generazionale di una massiva creazione di startup?
«Secondo me quello che dovrà accadere in Italia prossimamente è l’accettazione sempre maggiore di quel modello di nomadismo professionale che ormai in altri paesi è una prassi. Oggi, infatti, è necessario comprendere che ormai il lavoro si deve fondare su altri canoni. I professionisti di domani devono aprire la propria mente al concetto di portfolio, ovvero la logica per cui un lavoratore possa avere più progetti aperti per differenti datori di lavoro. Questa nuova concezione occupazionale una volta era improponibile e risultava come un’anomalia, ma ora inizia a diventare la norma e si lega anche alla creazione di nuovi metodi e luoghi di lavoro. E’ possibile che in un primo momento magari questo trend verrà interpretato in maniera più rapida dalle grandi città italiane come Roma, Milano, Torino e Firenze e poi si svilupperà negli altri centri urbani. Ci vorrà tempo, certo, ma credo che sia un passaggio obbligato, anche perché se volgiamo lo sguardo al di fuori dell’Italia, scopriamo che i professionisti tricolore all’estero si sono già adeguati a questi modelli. Le cose quindi possono cambiare e anche se sul territorio nazionale c’è ancora questa mentalità, prima o poi dovrà modificarsi anche perché i lavori fissi e le opportunità lavorative con queste caratteristiche sono sempre meno. Quindi, inevitabilmente, l’algoritmo della produttività dovrà trasformarsi anche qui».
In vista di questa rivoluzione, qual è il principale mega-trend che un’azienda italiana dovrà tenere in considerazione per il futuro secondo lei?
«La demografia è sicuramente il fattore più importante anche perché i dati prevedono che l’Italia nel 2030 sarà il secondo Paese più vecchio al mondo dopo il Giappone. Questo ovviamente aprirà una forte crisi in un sistema economico che si troverà a dover sostenere troppi pensionati rispetto ai lavoratori attivi che avrà a disposizione».
Perché questi mega-trend sono importanti da monitorare per un HR manager?
«In passato queste macro-tendenze erano davvero molto slegate dalla vita di tutti i giorni e c’era una grande distanza tra macro e micro economia. Dei massimi sistemi si parlava solo a livello internazionale o nei meeting delle Nazioni Unite, mentre le realtà locali con le loro situazioni non se ne interessavano più di tanto. Oggi invece la distanza è molto minore e l’impatto di un evento globale è immediato e concreto anche nella vita quotidiana di tutti noi. La relazione tra questi due ambienti, quindi, è molto più intima e i cicli sono molto più brevi. Quello che mi auguro, in realtà, è che i manager 4.0 abbiano la capacità di considerare questi fattori non come lontani da loro, perché non lo sono, ma anzi ci sia grande attenzione da parte di questi professionisti ad avere la capacità di creare scenari ed essere agili nell’interpretare e affrontare questi temi. Una speranza che rivolgo in modo particolare al mondo HR, perché ogni anno mediamente circa 250 mila talenti lasciano l’Italia e ne arrivano altrettanti, ma con molte meno competenze e ambizioni professionali. Un flusso che denota, quindi, un equilibrio demografico che però corrisponde purtroppo a uno scompenso in termini di skill, riducendo così la competitività del Paese e delle sue realtà imprenditoriali. Inoltre, dobbiamo considerare anche che le ondate migratorie di grandi talenti, portano impatti generazionali importanti all’interno dei contesti nazionali, ringiovanendo conseguentemente i territori che li accolgono. Basti pensare come, ad esempio, l’età media prevista in Germania e Italia nel 2030 sia di 49 anni, mentre in Francia e Inghilterra, nazioni verso cui migrano i migliori nuovi talenti, il livello scenda addirittura di più di un lustro, attestandosi sui 42 anni e sottolineando così una differenza sostanziale anche in termini di capacità generazionale di adattamento al cambiamento, flessibilità e agilità mentale. Tutti aspetti da non sottovalutare sul lungo periodo».
Cosa dovrebbero fare le aziende italiane per attrarre a sé i migliori talenti?
«Il lavoro principale da fare per un’impresa moderna è quello di ridisegnare il proprio algoritmo della produttività, adeguandolo alle trasformazioni tecnologiche che coinvolgono oggi la nostra società. Per esempio, il concetto della giornata lavorativa così come la conosciamo è un’idea che si basa su un tipo di produttività che poteva andare bene più di 50 anni fa, quando l’attività professionale si basava su standard produttivi che mediamente proponevano un valore accettabile in una giornata composta da 8 ore appunto. Ai giorni nostri, queste logiche non possono più essere ritenute valide e così, in maniera particolare, le risorse umane devono capire come la tecnologia possa liberare l’uomo da lavori che non ne possono più definire la produttività reale».
Qual è il modo migliore per avviare questo processo di trasformazione?
«Utilizzare il future think prima di tutto. Per esempio, le Hr devono assumere talenti pensando al futuro, ovvero capendo come trovare chi gli serve non sull’esigenza presente dell’azienda, ma anticipando i problemi che si potranno avere domani. In secondo luogo, oggi è sempre più necessario slegarsi dal concetto del curriculum, perché abbiamo visto che ormai iniziano a essere molto più importanti i modelli psicologici e comportamentali rispetto al progetto e al feedback che si può ricevere dalla persona, piuttosto che il novero di tutte le sue competenze accumulate negli anni. Infine, è necessario pensare a una differente modularità del lavoro. Deve essere più flessibile, più agevolante anche a livello sociale e professionale».