Dall’Io al Noi, come crolla il mito del Ceo
L’Harvard Business Review analizza il “caso” del ribaltone che ha portato alle dimissioni del CEO di Danone Emmanuel Faber.
La cacciata nello scorso marzo di Emmanuel Faber, Ceo di Danone – emanazione di un management attento alla sostenibilità, in particolare dopo i successi conseguiti nel trasformare il colosso francese in impresa benefit (o B-Corp) – è stata vista da molti come uno scontro tra il potere dei fondi di investimento attivisti e il cosiddetto “stakeholder capitalism”. Ma le implicazioni sono più complesse e offrono l’occasione per una riflessione più ampia: nel costruire un’azienda che cerchi di rispondere a bisogni non solo economici, ma anche sociali e ambientali, non c’è spazio per il singolo capitano d’impresa.
Mary Johnstone-Louis e Charmian Love riepilogano i fatti in un articolo pubblicato su Harvard Business Review: «Non ci possono essere eroi singoli», la conclusione dell’articolata riflessione. È finita, insomma, l’era dell’uomo solo al comando, il sistema è cambiato».
Le autrici evidenziano quattro principi che ciascuna azienda dovrebbe tenere presenti – in questo scenario completamente mutato – per costruire un business durevole che risponda alle crescenti richieste non solo degli azionisti ma anche degli stakeholder.
La leadership guidata da questi principi consente alle aziende di realizzare le proprie ambizioni, indipendentemente da chi sia il CEO.
Il primo concetto a cui si fa riferimento afferma che «la leadership dei sistemi si basa sulla cultura. Lo stesso Faber lo ha sottolineato, dopo le dimissioni: è fondamentale che il purpose di un’azienda sia qualcosa che va oltre gli slogan, per essere interiorizzato dall’intera struttura ed entrare a far parte della cultura aziendale.
Poi, come secondo principio, è necessario sostenere e perseguire gli obiettivi dell’azienda anche al di là del Cda. Faber ha lavorato 24 anni in Danone, di cui sette da Ceo, e la sua impronta si avvertirà a lungo, «ma molti membri del consiglio di amministrazione non si sentono in grado di assumere questo ruolo, il che significa che è essenziale che i direttori siano formati, autorizzati e informati nel perseguire il purpose».
Come terzo punto, è necessario fissare delle regole, che siano chiare e che consentano di rispettare gli impegni verso gli stakeholder in modo credibile e duraturo. «In molti paesi, le leggi progettate per guidare queste decisioni sono, nella migliore delle ipotesi, ambigue», sottolineano le autrici. Fondamentale, ancora, usare un linguaggio diretto e che evidenzi il passaggio a nuovi modelli. «Riteniamo che la proliferazione di termini come “stakeholder capitalism”, “capitalismo sostenibile”, “impresa sociale” e “aziende di scopo” – scrivono le autrici – faccia la stessa cosa. Confondono le acque e distraggono da quello che in realtà è un obiettivo semplice: far funzionare tutti i modelli di business e i sistemi economici in modo da avvantaggiare tutti gli azionisti e gli altri stakeholder». Inoltre, per ciò che riguarda gli obiettivi, «le aziende ne fissano di sempre più ambiziosi per quanto riguarda il loro impatto sull’ambiente e sulla società. Ma senza il cambiamento dei sistemi, molti di questi obiettivi saranno estremamente costosi da raggiungere per le singole aziende, o semplicemente irraggiungibili».
Johnstone-Louis e Love portano un esempio: «La portata del passaggio da un’economia basata sul carbonio e sul consumo è enorme, e l’investimento richiesto è altrettanto immenso. Sfide di portata simile esistono a livello di imballaggi e rifiuti globali, diritti umani lungo le catene di approvvigionamento e parità di genere nelle organizzazioni aziendali. La collaborazione sarà la chiave per intaccare questi problemi. L’azione collettiva sotto forma di lavoro significativo e trasparente a livello di settore tra i concorrenti può trasformare le ambiziose discussioni aziendali in un cambiamento sostanziale».
Infine, sebbene i dati Esg (Environmental, social, governance) denotino una crescita del 30% negli ultimi cinque anni, «non porteranno necessariamente a un cambiamento di sistema, e potrebbero persino minarlo». Questo perché «troppo spesso, la performance di un’azienda su standard e framework ESG è scarsamente correlata con la sua performance su altri»: ciò fa sì che non sia sempre considerato un indicatore significativo di una “buona azienda». Questo non significa che l’ESG sia privo di valore. Come il marchio Fair Trade, può agire per sensibilizzare la consapevolezza dei consumatori e degli investitori. Ma, cosa più importante, serve promuovere «standard di misurazione e rendicontazione ambiziosi, chiari e coerenti». La lezione, insomma, è semplice per le due esperte: gli obiettivi dell’azienda devono essere incorporati e governati in modo tale da poter sopravvivere anche al più visionario amministratore delegato, perché «costruire un sistema economico inclusivo, equo e rigenerativo richiede un’azione collettiva sostenuta attraverso le generazioni».