Cultura digitale, ecco come la formazione deve supportare il business
In un contesto digitale articolato e in continua evoluzione, le aziende devono facilitare la learning-agility, che concorre alla competitività aziendale e all’employability degli stessi lavoratori. Ne abbiamo parlato con Roberta Morici, responsabile dei servizi di formazione di Cefriel, realtà leader nella formazione manageriale.
«Tutti dobbiamo avere consapevolezza di quali siano le opportunità del digitale, ma dobbiamo anche conoscerne i rischi e le complessità di utilizzo». Ne è convinta Roberta Morici, responsabile dei servizi di formazione di Cefriel, consorzio del Politecnico di Milano dedicato all’innovazione digitale, che ribadisce quanto il digitale possa cambiare i processi di lavoro quotidiani.
Dottoressa Morici, come?
«Le tecnologie digitali possono innovare i processi quotidiani, la collaborazione, le relazioni con i clienti, ma occorre acquisire le competenze che abilitano questa trasformazione».
Può fare degli esempi di competenze necessarie?
«In primo luogo ci sono quelle che riguardano la cittadinanza digitale, ossia il modo con cui tutti noi responsabilmente usiamo le tecnologie per navigare in rete, fare acquisti, informarci e usare i servizi online. Ci sono poi le competenze digitali che servono a chi lavora in azienda, ad esempio la capacità di usare i dati per prendere le decisioni, per ottimizzare i processi, per progettare nuovi servizi per i clienti, e così via. Infine, un terzo ambito riguarda le conoscenze avanzate per gli specialisti del digitale, come i professionisti della cyber security, del cloud, della data science, e così via. Per tutti è fondamentale l’aggiornamento, che è sempre più necessario data la velocità con cui le tecnologie evolvono».
Qui interviene la formazione…
«Sì, la formazione e la certificazione delle competenze apprese: occorre fare una formazione che sia misurabile in termini di impatto sui Kpi aziendali, e tracciabile. E infine è necessario insistere sui processi di autoapprendimento, e fare in modo che la formazione diventi quanto più integrata possibile con i processi di lavoro. La formazione, insomma, non deve essere considerata come qualcosa che si fa staccandosi dai processi di lavoro, ma all’interno di essi, come parte della quotidianità di tutti».
Questa trasformazione è stata spinta dalla pandemia?
«In occasione della pandemia è stata fatta una riflessione più profonda su questi temi, ma ovviamente si parlava di digitale anche prima della pandemia. Poi, in quel momento, si è sviluppata molto la cultura base sul digitale, ciò che chiamiamo la cittadinanza digitale, perché questo aspetto è diventato parte fondamentale delle nostre vite come cittadini e consumatori. L’accelerazione ‘obbligatoria’ data dalla pandemia si è innescata sul piano della trasformazione digitale all’interno delle imprese, finalizzata all’innovazione dei processi e dei servizi. Per ciò che riguarda le specializzazioni in campo digitale, ovviamente anche prima della pandemia esistevano figure specialistiche, ma da quel momento in poi l’evoluzione delle competenze è stata sempre più accelerata».
Quanto incide la formazione sull’employability?
«Certamente, questo è un aspetto cruciale: ad esempio, sempre più giovani in fase di scelta di un’offerta di lavoro considerano anche l’offerta formativa da parte dell’azienda, in ottica di employability futura. Così come, infine, è cruciale l’integrazione della formazione con gli obiettivi di business. Non si tratta di una novità assoluta, ma sempre di più obiettivi di business e obiettivi formativi viaggiano allineati: una prerogativa imprescindibile in un mondo che cambia così velocemente».