Contratti, lo stato dell’arte tra rinnovi e aumenti

Fatto salvo per il lavoro agricolo e quello domestico, nel settore privato sono 856 i contratti collettivi nazionali, di cui circa il 40% scaduti. Mentre commercio e turismo hanno tutti i tavoli aperti (Confcommercio, Federdistribuzione, Confesercenti e Coop), nell’industria si riscontra un’inversione a favore dei lavoratori con contratto già rinnovato rispetto a quelli con contratto scaduto.

Contratti

Tra la fine del 2021 e i primi mesi del 2022, c’è stato un vero e proprio boom di rinnovi contrattuali: dalla chimica farmaceutica all’edilizia, dagli autoferrotramvieri, alla metalmeccanica, i multiservizi, la sanità privata e la moda; e ancora, l’energia e petrolio, l’elettrico e il settore minerario. Un vero boom, insomma, che vede, contrariamente a quanto accadeva in passato, il 60% dei contratti rinnovati contro un 40% di scaduti.

Tralasciando quei settori del terziario che hanno ancora i tavoli di contrattazione aperti, sono quasi cinque milioni e mezzo i lavoratori dipendenti ai quali si applica uno dei 60 contratti collettivi nazionali del sistema Confindustria e quasi l’86% del totale – ovvero oltre 4,5 milioni di lavoratori – ha un contratto collettivo in vigore mentre sono meno di 500mila (il nove per cento del totale) i lavoratori interessati da contratti scaduti da poco tempo (non oltre 12 mesi) e 270mila lavoratori, il cinque per cento del totale, i contratti scaduti da oltre 24 mesi.

Uno sguardo globale

Secondo la rielaborazione della Cisl su dati Cnel, se escludiamo il lavoro agricolo e quello

domestico, nel privato ci sono in totale 856 contratti collettivi nazionali che riguardano 13.697.850 lavoratori, 346 dei quali (circa il 40%), sono scaduti e riguardano 6.697.998 lavoratori.

I contratti vigenti sono invece 510, circa il 60%, e riguardano 6.999.852 lavoratori.

I dati relativi ai rinnovi sottolineano due elementi: la validità del Patto della fabbrica nonostante i due anni di Covid e l’importanza centrale della contrattazione e dell’interlocuzione con i sindacati confederali, per i quali i rinnovi dei contratti erano una priorità assoluta, tenendo presente che le situazioni più complesse, come la sanità privata e il multiservizi, avevano contratti che erano scaduti da diversi anni.

Il ruolo del Patto per la fabbrica

Il sistema di regole date nel 2018 attraverso il Patto per la fabbrica, condiviso da Confindustria e Cgil, Cisl e Uil, ha sicuramente aiutato a trovare delle soluzioni e ad aprire riflessioni sulla centralità che devono avere i contratti per i settori. Per la prima volta, infatti, le regole non erano volte solo a comprimere le retribuzioni ma, al contrario, a immaginare una diversa distribuzione degli aumenti che non caricasse troppo i minimi contrattuali. In questo modo, i diversi settori, in caso di imposizione di un salario minimo, avrebbero potuto dichiarare al legislatore di avere già costruito un proprio salario minimo attraverso la contrattazione e avrebbero potuto evitare la fuga dal contratto che c’è stata in quei Paesi dove è stato introdotto il salario minimo.

Le strategie dei sindacati

Confindustria ha stimato un aumento medio delle retribuzioni contrattuali del 4,9% nel triennio 2018-2021. Nello stesso periodo, l’inflazione, misurata a consuntivo dall’Ipca, al netto degli energetici, è stata del 2,8%. L’aumento retributivo sembra quindi essere superiore a quello dei prezzi e, per salvare i salari dall’inflazione Cgil, Cisl e Uil, hanno cercato di portare avanti diverse strategie.

Per il segretario confederale della Cisl, Giulio Romani, bisogna agire in due direzioni: «La prima è rivedere la politica di redditi perché è l’unico metodo per contrastare la spirale inflazionistica. La seconda è favorire la diffusione di un secondo livello negoziale che redistribuisca la produttività che viene realizzata in azienda».

Tiziana Bocchi, segretaria confederale della Uil, è convinta che «nell’industria, tutto sommato, la

contrattazione ha retto. Anche il Patto per la fabbrica su cui abbiamo discusso per il problema dell’inflazione perché l’Ipca al netto dei costi energetici importati non è l’indicatore più adeguato». Anche una volta rinnovati i contratti, però, «resta un problema salariale complessivo – rileva la sindacalista – e proprio per questo la nostra proposta è stata, ed è, la detassazione degli aumenti e il rafforzamento della contrattazione decentrata. Con la detassazione dei premi di risultato».

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