Contratti a termine, cambiamenti in vista
Il Decreto Dignità introduce una stretta sui contratti di lavoro a tempo determinato. Prima spallata del nuovo governo al Jobs Act accusato di aver creato una notevole quantità di lavoro precario. Ma è proprio così?
Contratti a termine, si cambia. Il primo atto normativo di peso del Governo Lega – Movimento 5 Stelle, il Decreto Dignità, entrato ufficialmente in vigore il 14 luglio, introduce delle novità significative proprio per quel che riguarda il contratto a tempo determinato, modificando di fatto il Jobs Act targato Renzi.
Punto cruciale del decreto, voluto fortemente dal ministro del Lavoro Luigi Di Maio, è proprio la stretta sui contratti a termine, sia per quanto riguarda la loro durata, sia per quanto riguarda la “motivazione”, sia infine dal punto di vista contributivo. Scopo dichiarato dell’intervento: disincentivare questo tipo di contratti e favorire il passaggio a rapporti di lavoro più stabili.
Così il decreto, che adesso dovrà passare al vaglio del Parlamento, stabilisce una durata massima dei contratti a termine di 24 mesi contro i 36 precedenti, con la possibilità di 4 rinnovi invece di 5. Inoltre ritorna la “causale”: solo i primi 12 mesi saranno liberi, dopo sarà obbligatorio specificare le ragioni per le quali si intende proseguire quel contratto a tempo. Sono due le fattispecie di causali ammesse: esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria; necessità temporanee e oggettive, estranee all’attività ordinaria, o per necessità di sostituire altri lavoratori che magari sono in ferie. A questa stretta si unisce quella contributiva: ogni rinnovo, anche al di sotto dei 12 mesi, prevede che i contributi crescano dello 0,5%. Le nuove regole si applicano a tutti i nuovi contratti e ai rinnovi o proroghe di quelli già in corso; non valgono invece per i contratti della Pa e per gli stagionali, per i quali resta tutto come prima. Novità sono previste anche per quanto riguarda i contenziosi. Il Decreto prevede che l’indennizzo in caso di licenziamento senza giusta causa aumenti del 50%: la forbice del risarcimento sale infatti dalle 4-24 mensilità precedenti alle attuali 6-36. Inoltre cresce da 120 a 180 giorni la finestra di tempo nella quale un lavoratore può impugnare un contratto.
Molte le critiche che sono piovute sul Decreto Dignità, accusato dagli imprenditori di aumentare troppo il costo del lavoro e dall’opposizione politica, PD in testa, di non far diminuire la precarietà ma anzi di aumentare la disoccupazione (secondo le stime dell’Inps l’entrata in vigore della norme porterà a 8 mila posti di lavoro in meno).
Quel che è certo è che il Decreto ha dato una prima forte scossa al Jobs Act, ritenuto colpevole di aver contribuito all’eccessiva precarizzazione del mondo del lavoro.
Ma è proprio così?
Confrontando i dati italiani con quelli europei emerge come l’Italia sia più “virtuosa” di altri grandi Stati europei. A fine 2017 il peso dei posti di lavoro a termine sul totale degli occupati era pari al 15%, una cifra inferiore al valore medio dell’eurozona (16%) e più bassa di quella di Francia (17%), Spagna (27%), Olanda (22%). É vero che dal 2013 al 2017 dei 999 mila nuovi posti di lavoro, 525 mila sono stati a termine, ma l’Italia non è certo un’anomalia se si considera che nello stesso periodo quelli spagnoli sono stati 935 mila (l’80% in più che in Italia) e quelli francesi 485 mila. Interessati anche i dati comparativi europei sulla durata dei rapporti di lavoro: nel 2017 i contratti inferiori al mese erano 594 mila in Francia e 191 mila in Spagna, contro gli 88 mila dell’Italia.