Big Data e managerialità

A mettere l’attenzione sulla rapacità del mondo digitale di Silicon Valley è il sociologo Mozorov, autore di articoli e pamphlets contro i tecnocrati del web, contro il cyber-utopismo e certe ingenuità ottimistiche che si sono diffuse sulla rete quali, ad esempio, la sua funzione democratizzante

Mozorov è giornalista, studioso di nuovi media e comunicazione, e ci mette in guardia dal considerare il fenomeno Silicon Valley come un innocuo contesto generativo che, attraverso la rete, porta innovazione e democrazia. Ed è estremamente critico sugli aspetti della privacy in rete e della “mercificazione “dei dati personali.

A quanto pare, questi approcci orientati all’uso massiccio di tracce personali attraverso sofisticati sistemi digitali iniziano a riguardare anche le policy HR, tanto che ai convegni sulle risorse umane – e non solo sui siti digital oriented – si inizia a parlare di Big Data a servizio dei processi HR.

Insomma, stiamo iniziando a chiederci se sia bene e male l’ ipotesi del Data Mining applicato allo studio delle “risorse” in azienda. Tutti abbiamo ormai accettato che quando entriamo in rete ad interrogare il web non è affatto gratis ma paghiamo alla grandelasciamo tracce precise e dettagliate dei nostri comportamenti, delle nostre preferenze, degli orari in cui ci piace navigare e molto altro.

Ora, se abbiamo accettato che ciò accada a casa nostra, perché mai il prossimo passo non dovrebbe essere il Data Mining  utilizzato a fini gestionali in ambito HR? Alcune grandi corporation, cosi raccontava un collega a un recente convegno, stanno cercando di usare sofisticati sistemi ai fini di prevenire cattive abitudini comportamentali, quali ad esempio l’ alcolismo. E si tratta ovviamente di una delle infinite applicazioni possibili.

Ben venga dunque, tutto questo? No. Non ne siamo per nulla convinti. Non siamo su posizioni estreme quali quelle di Evgeny Morozov che invita ad odiare le corporation di Silicon Valley, con le sue reti e i suoi droni che consegneranno pacchetti a casa in un futuro ormai prossimo. E tuttavia, nemmeno ci lasciamo affascinare in modo acritico da uno scenario in cui, oltre ad essere tracciati, decidiamo noi stessi, consapevolmente e scientemente, di tracciare altri individui, di “auscultare tecnologicamente“ le abitudini dei nostri colleghi.  Non è questo il Futuro che ci piace immaginare per l’HR, nemmeno se fosse a “fin di bene”.

Non ci piace perché preferiremmo strade, magari altrettanto tecnologiche ma trasparentie dichiarate per interrogare i colleghi che ci stanno intorno, cercando proposte di dialogo innovative, che non siano le solite indagini di clima. Ma per far questo ci sono passaggi importanti e meno tecnologici su cui siamo rimasti un po’ in stand-by: per esempio promuovere una cultura del dialogo, adottando nuovi stili di condivisione e di interrelazione, lavorando più a fondo sull’enorme potenziale della cooperazione.

Per esempio favorire costanti forme di feedback e modalità relazionali che, pur nel rispetto di ruoli e toni professionali, vadano un po’ più a fondo delle “qualità” e dei temi umani. Forse, in questi nuovi “climi”, le persone potrebbero sentirsi più libere di esprimere critiche, disagi, di partecipare al miglioramento di sé all’interno di un contesto organizzato.

Dunque, perché cercare scorciatoie digitali quando abbiamo la possibilità – forse anche a budget meno esosi – di creare culture migliori e manager migliori che sappiano accorgersi da soli se c’è un disagio fra le persone, se ci sono criticità striscianti o sintomi di fenomeni problematici  da monitorare? Perché delegare anche solo un pezzetto di questa responsabilità manageriale e “umana” alla tecnologia?

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