Barberino’s, la start-up dove il barber shop è luogo dell’anima
Michele Callegari racconta come è nato il brand e l’immaginario di cui è costruito. E di come la nuova società abbia considerato l’Hr una figura chiave su cui fare leva per crescere.
“Ho un background di tipo finanziario, ho lavorato tra l’Italia e Londra, mi trovavo benissimo dove stavo, amavo quello che facevo. A un certo punto, però, mi sono sentito pronto e maturo per fare altro, qualcosa di più difficile, e con un collega ho costruito Barberino’s”.
A parlare è Michele Callegari che, dopo esperienze lavorative che gli hanno fatto attraversare realtà come Credite Suisse e Unicredit, ha fondato con il socio Niccolò Bencini Barberino’s, una start-up pensata per trasmettere l’immaginario di eleganza e professionalità tipicamente italiani all’interno di una rete di barber shop. Oltre ad essere un logo fisico in cui “consumare un’esperienza”, Barberino’s è anche una linea di prodotti cosmetici di alta qualità venduti anche on line. L’avventura è cominciata in quattro: Michele, Niccolò, un barbiere e Marta, alla quale è stato subito proposto di fare l’Hr: “Avevamo tre dipendenti, ma abbiamo scelto di avere un Hr per aiutarci a fare crescere l’attività”, spiega Callegari.
Come è nata l’idea di Barberino’s?
A Londra, dove io e il mio attuale socio ci trovavamo spesso per lavoro, abbiamo iniziato ad avvicinarci al grooming maschile. Londra rappresenta un mercato evoluto su molti aspetti, e da quell’osservatorio è un po’ come guardare il futuro. David Beckham è stato il primo eterosessuale, agli inizi degli anni duemila, a mostrarsi mentre metteva una crema in viso… Ci siamo avvicinati a questo mercato notando che lì l’offerta era già di tipo manageriale: eravamo clienti di brand autentici, non di grandi corporate. Di lì a poco a Milano si è avviato Bullfrog: l’ambiente era hipster, hardcore, molto legato al mondo dei tatuaggi, delle moto. Era la moda del momento ma non era il nostro ambiente, che è quello dei colletti bianchi. Ci è stato subito chiaro, però, che si trattava di un mercato in crescita, perché i giovani sono sempre più inclini a comprare esperienze piuttosto che oggetti.
Cosa intende per giovani, qual è il vostro target di riferimento?
Il nostro zoccolo duro sono i 25-55enni. Certamente, la generazione Y è quella più incline a preferire un bel viaggio a un orologio, ma questo vale anche per la generazione X. Insomma, abbiamo voluto creare un simbolo del grooming italiano che ama indulgere, le piccole cose, lo slow living. Si tratta di un immaginario che anche la filmografia italiana rappresenta benissimo. Abbiamo, così, deciso di lavorare alla costruzione del carisma come barbieri, della reputazione. Siamo partiti con l’off-line. Ho ripensato agli anni in cui studiavo a Londra, prima di lavorarci, e mi chiedevo perché la gente andasse a mangiare hamburger a 25 pounds quando si poteva farlo per molto meno…
E come avete fatto?
Non è stato semplice. Io ero abituato a parlare con persone con cui condividevo un certo sentire. Confrontarmi con un artigiano 21enne, soddisfatto di ciò che faceva, non era semplice. Ci ha accompagnato, tuttavia, la certezza che il successo sta nelle persone. Da lì è nata l’idea di dotarci subito di un Hr. In quel momento abbiamo conosciuto Marta, laureanda in editoria, e le abbiamo chiesto se avesse voglia di fare questo lavoro: ha accettato. È stata bravissima a farci passare da 3 dipendenti a 30 in quattro anni. In tutto, con il turn-over, abbiamo assunto 60 persone. I negozi sono otto e stiamo per aprirne un altro. E stiamo inserendo proprio in questi giorni un’altra figura che consideriamo fondamentale, che si occuperà di People and Culture. L’occasione per pensare all’introduzione di questo ruolo – che ci pare insolito nel panorama italiano – è arrivata quando un ragazzo che lavorava da noi da sei mesi se n’è andato; io non lo avevo mai conosciuto. Perché se ne era andato? Mi sono reso conto che, oltre alla formazione tecnica, è importante la contaminazione culturale, il parlare la stessa lingua. Il barbiere che ci ha lasciati è stato la mia epifania. Ho capito che avevamo bisogno, oltre che di un Hr manager che gestisse le risorse umane, anche di una persona che codificasse la narrazione dei processi. Che capisse perché una persona se va, e che lo capisse in anticipo. La cosa più difficile è trovare le persone. Warren Buffet mi ha trasmesso la sua filosofia, che è quella di non investire per la contingenza ma per la vita. Poi, è evidente che un ventenne può cambiare interessi, ma io imprenditore devo capire quali evoluzioni avvengono attorno a me.
Come scegliete le città in cui aprire negozi?
Ci piacerebbe farlo ovunque, ma è anche vero che, per certi aspetti esiste Milano e il non Milano, che è tutto ciò che ne è fuori. Esistono province molto ricche in cui si crede ancora, però, che sia sbagliato spendere trenta euro per andare dal barbiere. Ovvio che le città come Milano dove ci sono centri direzionali, dove c’è ricircolo di persone, sono più adatte.
E l’estero?
È evidente che tutto il lavoro di oggi ha l’obiettivo di costruire le radici per andare all’estero. Noi siamo considerati il paese con il debito più alto del mondo, dove però si possono anche spendere 50 euro per andare dal barbiere. Per questo il punto non sono i negozi, ma l’immaginario che si costruisce non appena si entra nei nostri luoghi fisici.