L’era del lavoro libero: storia di una rivoluzione in atto
Dallo smartworking al lavoro ibrido, fino ai nuovi equilibri vita-lavoro, quali sono le sfide che un’azienda deve affrontare per essere sempre al passo con i tempi, pronta a reagire ai cambiamenti costantemente in atto? Ne abbiamo parlato con Francesco Delzio, autore del libro “L’era del lavoro libero. Senza vincoli né barriere. Siamo pronti a questa rivoluzione?”
Entriamo subito nel vivo della questione, professor Delzio: ci spiega come è cambiato il mondo del lavoro dalla pandemia in poi?
«I cambiamenti ai quali stiamo assistendo in realtà hanno un’origine precedente rispetto alla pandemia, ma la pandemia li ha notevolmente accelerati. Il cambiamento principale è quello che nel mio libro definisco l’avvento dell’“era del lavoro libero”, ovvero una nuova fase storica nella quale i tradizionali vincoli di tempo e di spazio, che per secoli hanno caratterizzato l’attività produttiva dell’uomo – ovvero un luogo fisico esclusivo nel quale svolgere la propria attività lavorativa e un orario prestabilito nel quale svolgerla – stanno gradualmente venendo meno.
A tutto questo si accompagnano due grandi fenomeni, due spinte fortissime – una dall’alto, l’altra dal basso – che per la prima volta nella storia agiscono simultaneamente, generando una vera e propria rivoluzione nel mondo del lavoro. Dall’alto arriva la rivoluzione tecnologica, che determina nuovi modelli organizzativi del lavoro nelle aziende (smartworking in primis) e che avrà nei prossimi anni una notevolissima accelerazione con la diffusione delle macchine intelligenti, capaci di unire la robotica e l’intelligenza artificiale. Al tempo stesso, stiamo assistendo a una spinta molto forte anche dal basso, dettata dai nuovi schemi di valori che una parte importante di lavoratori ha fatto propri negli ultimi anni. In particolare, è cambiato oggi il valore che i lavoratori attribuiscono al lavoro: all’interno della generazione Z e in parte dalla generazione dei Millennials, infatti, gli individui non considerano più il lavoro come “sovrano assoluto delle proprie vite”, e chiedono quindi un ribilanciamento molto forte tra vita e lavoro e vorrebbero un coinvolgimento all’interno delle imprese molto diverso rispetto al passato. Nelle selezioni di lavoro assistiamo oggi a un grande paradosso: si concludono ancora con la solita frase che conosciamo, “le faremo sapere”, ma spesso quella frase non è più pronunciata dall’HR bensì dal candidato, dal giovane talento che non si riconosce nella modalità di lavoro di quell’azienda, nello schema di valori sociali, nella qualità della formazione offerta dall’azienda stessa».
Tutti i fenomeni del momento, dal quite quitting alle great resignation, secondo lei, erano già in atto e il covid li ha solo accelerati o la pandemia li ha innescati ex-novo?
«Il fenomeno delle dimissioni di massa, che abbiamo tutti scoperto un anno e mezzo fa negli Stati Uniti e oggi in Italia, in realtà è un fenomeno che esiste statisticamente in Italia almeno dal 2010. Tuttavia oggi è un fenomeno legato anche ad una “anomalia” italiana: lo scollamento profondissimo tra i lavoratori e il lavoro. Secondo le indagini internazionali di Gallup, l’Italia è il Paese nel quale ci sono i lavoratori più infelici al mondo – l’istituto di ricerca ha preso in considerazione i 40 Paesi più avanzati –: soltanto il 4% dei lavoratori italiani, infatti, si dichiara pienamente soddisfatto del proprio lavoro».
Soprattutto le nuove generazioni non sono disposte a rinunciare al nuovo equilibrio vita-lavoro: cosa devono fare le aziende per attrarre e trattenere i talenti?
«La rivoluzione attuale impone cambiamenti strutturali e organizzativi che, a mio avviso, le imprese italiane soltanto in parte finora hanno colto e realizzato. La cronaca quotidiana testimonia l’impreparazione con la quale spesso le strutture HR si confrontano con la generazione Z e con le richieste specifiche che quest’ultima fa. Mi riferisco per esempio alla formazione personalizzata. Ma anche a impegni che vadano oltre le semplici dichiarazioni di sostenibilità. E a un coinvolgimento attivo nelle decisioni. La Gen Z, infatti, chiede aziende con strutture piatte, orizzontali, senza troppi livelli a dividere il vertice dai “piani bassi”, ma l’interlocutore al quale i giovani fanno queste richieste è un mondo imprenditoriale che non è ancora aggiornato rispetto a queste istanze.
A me ha stupito e preoccupato molto, per esempio, la corsa all’indietro velocissima che è stata fatta dalla gran parte delle imprese italiane rispetto al tema dello smartworking: è stato un grandissimo errore a mio avviso, perché vuol dire non aver capito la lezione della pandemia e soprattutto non aver capito che le due spinte di cui parlavo all’inizio, quella tecnologica sui modelli organizzativi delle imprese e quella psicologica nella testa dei lavoratori, non possono essere arrestate e non sono terminate con la pandemia, anzi avanzeranno in maniera evidente nei prossimi anni. Oggi non dotarsi di un modello ibrido vuol dire probabilmente non essere in grado di attrarre quei talenti, soprattutto under 40, di cui qualsiasi tipo di impresa ha bisogno».
Quale scenario vede per il prossimo futuro?
«Stiamo vedendo aziende dei servizi a più alto valore aggiunto, ovvero hi-tech e simili, ma anche alcune grandi aziende manifatturiere e alcune multinazionali, che stanno cavalcando il lavoro ibrido e le innovazioni che garantiscono maggior coinvolgimento dei lavoratori all’impresa. La letteratura internazionale ci dice che queste aziende sono proprio quelle che fanno registrare le crescite migliori in termini di produttività. All’interno del nostro sistema imprenditoriale, in media, continuerà invece a dominare la vecchia regola del “Command and Control”, per cui avremo capi – soprattutto a livello di middle management – che resistono in modo conservatore di fronte a qualsiasi cambiamento, perché sono ancora convinti che sia giusto applicare il comando e il controllo e quindi guardare negli occhi necessariamente in un luogo fisico il proprio dipendente».
E quale sarebbe invece lo scenario ideale?
«Nello scenario ideale invece, entrano in gioco strumenti nuovi. Per esempio, uno strumento che io considero molto potente e che mi piacerebbe vedere applicato in Italia nei prossimi anni, è quello della partecipazione dei lavoratori all’impresa. Ne parlo molto ne “L’era del Lavoro Libero”. Penso alla partecipazione agli utili dell’impresa, attraverso piani di azionariato diffusi che coinvolgano i lavoratori a tutti i livelli, ma anche al coinvolgimento dei lavoratori nelle decisioni strategiche dell’azienda, ovviamente con meccanismi di vario tipo.
La partecipazione dei lavoratori ha come riferimento il modello tedesco, che tuttavia è un riferimento sbagliato perché la grandissima parte degli imprenditori inorridisce pensando al fatto che il modello tedesco prevede la presenza dei rappresentanti dei lavoratori nei consigli d’amministrazione delle aziende. A mio avviso è invece oggi possibile costruire una via italiana alla partecipazione, un modello più adatto alle nostre medie e piccole imprese.
In che modo le istituzioni possono supportare le aziende nel cambiamento?
«Sul tema della partecipazione c’è una proposta di legge di iniziativa popolare: la Cisl sta raccogliendo le firme in questa direzione. E abbiamo una maggioranza parlamentare e un Governo che stanno iniziando a ragionare su questo modello, anche come alternativa rispetto al reddito di cittadinanza. Considerando che nel sistema imprenditoriale italiano si sono molto rafforzate le aziende che esportano, oggi l’Italia presenta un sistema di aziende in buona salute, potremmo dire addirittura in ottima salute rispetto ai propri competitor. Le istituzioni possono supportare le aziende strutturando appunto strumenti ad hoc, come la partecipazione – ovviamente senza imposizioni di legge – ma con strumenti di incentivazione fiscale che favoriscano questo tipo di scelta, per esempio detassando la parte di reddito in più che arriva ai lavoratori attraverso manovre di questo tipo.
E poi bisognerebbe innovare molto tutta la strumentazione giuridica, che è ferma in realtà a decenni fa: basti pensare proprio alla normativa sullo smart working. E qui forse mancano ancora delle regole chiare perché si tende ad applicare le regole del lavoro normale a una situazione che è completamente diversa».