Aumentano le dimissioni volontarie: il fenomeno della “great resignation” è arrivato anche in Italia?
Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha diffuso la nota relativa al III trimestre 2022: sono aumentati i licenziamenti, ma anche le dimissioni. A dimettersi volontariamente sono di più le donne, mentre sul fronte dell’attivazione di contratti, la crescita da luglio a settembre 2022 è dell’1,3%. Sembra quasi un paradosso: con l’inflazione alle stelle gli italiani lasciano il lavoro. Viene da chiedersi: “Anche in Italia sta arrivando il fenomeno che negli USA viene definito great resignation?” Ecco gli ultimi dati.
“Great resignation”, le grandi dimissioni: negli Usa sono un fenomeno diffusissimo, in Italia non allo stesso modo benché, dopo la pandemia, il fenomeno sia senz’altro in crescita. Per scelta o per necessità, per guardare avanti rispetto alla propria occupazione e carriera o meglio conciliare le esigenze della famiglia, sono tante le persone che decidono di lasciare il proprio posto di lavoro: oltre 1,6 milioni, infatti, le dimissioni registrate nei primi nove mesi del 2022, il 22% in più rispetto allo stesso periodo del 2021 quando ne erano state registrate più di 1,3 milioni.
La fotografia arriva dagli ultimi dati trimestrali sulle comunicazioni obbligatorie del ministero del Lavoro e il numero indica i rapporti di lavoro cessati per dimissioni, e non il numero dei lavoratori coinvolti.
Tra le cause di cessazione dei rapporti di lavoro le dimissioni costituiscono, dopo la scadenza dei contratti a termine, la quota più alta (fonte Ansa).
Ma le cifre indicano come sia in salita anche il numero dei licenziamenti, dopo la fine del blocco deciso con la crisi pandemica: tra gennaio e settembre 2022, infatti, sono stati circa 557mila i rapporti interrotti per decisione del datore di lavoro contro i 379mila nei primi nove mesi del 2021, con un aumento del 47% (rispetto ad un periodo in cui era però in vigore il blocco).
Guardando il solo terzo trimestre dell’anno scorso, le dimissioni sono state 562mila, in crescita del 6,6% (pari a +35mila) sul terzo trimestre 2021. Dati che confermano, dunque, come continui il trend positivo partito dal secondo trimestre 2021, seppure con una variazione inferiore rispetto ai trimestri precedenti.
Per quanto riguarda i licenziamenti, nel terzo trimestre del 2022 ne sono stati registrati quasi 181mila, con una crescita del 10,6% (pari a +17 mila) rispetto al terzo trimestre del 2021.
Sarà dunque per un mercato del lavoro che diventa sempre più dinamico, per una scelta di vita diversa o per le conseguenze della crisi, ma il fenomeno delle dimissioni cresce e si fa trasversale, riguardando sia gli uomini, sia le donne.
A spingere, secondo gli osservatori, da un lato può essere stata la ripresa occupazionale, dopo la caduta determinata dal picco della crisi Covid, con maggiore mobilità e opportunità anche per chi vuole cambiare lavoro, soprattutto per i profili tecnici e specializzati.
Dall’altro lato, al contrario, proprio la crisi e la necessità o il desiderio di un diverso equilibrio tra vita privata e professionale possono aver spinto a scegliere di dire addio al proprio posto di lavoro.
Per Giulio Romani della Cisl bisogna «rivedere i modelli organizzativi verso una maggiore qualità», visto che le imprese in cui si sviluppa benessere lavorativo e qualità del lavoro sono una minoranza e sono quelle dai 10 ai 250 dipendenti. Ma la platea delle imprese italiane spiega, «è però occupata per circa il 95% da microimprese, quelle con la minore produttività, all’interno delle quali mediamente si fatica di più a sviluppare forme di welfare integrativo e dove non si pratica la contrattazione aziendale e non si costruiscono sistemi premianti trasparenti. Dove si eroga poca formazione, si genera minore conciliazione vita-lavoro, si intravedono le minori prospettive di crescita economica e professionali».
«L’aumento delle dimissioni – fa sapere Tania Scacchetti della Cgil – può avere spiegazioni molto differenti: da un lato può positivamente essere legata alla volontà, dopo la pandemia, di scommettere su un posto di lavoro più soddisfacente o più “agile”, dall’altro però, soprattutto per chi non ha già un altro lavoro verso il quale transitare, potrebbe essere legato a una crescita del malessere dovuta anche ad uno scarso coinvolgimento e ad una scarsa valorizzazione professionale da parte delle imprese».
Per Ivana Veronese della Uil le dimissioni volontarie, possono forse essere «un segno di come le priorità si siano modificate anche nella testa delle lavoratrici e dei lavoratori: se da qualche parte c’è uno smart-working più flessibile, se la retribuzione dove lavoro è troppo bassa o gli orari troppo disagevoli, se ho voglia di provarci davvero, un lavoro, magari anche sicuro, lo si può lasciare».