Ai, algoritmi e gamification: una spinta all’HR 4.0
Non chiamateli giochi: sono strumenti che migliorano engagement e performance aziendali. Ma ci sono diffidenze da superare
L’intelligenza artificiale e la gamification sono strumenti sempre più diffusi nelle imprese. Aiutano i team hr nelle decisioni, migliorano i processi di engagement e la gestione della diversity. Non sono “giochi”, ma c’è ancora molta diffidenza. Come superarla? Quali risultati producono? Come migliora la vita in azienda? Ne abbiamo parlato con Elena Panzera (Sas), Linda Serra (Work Wide Women) e Fabio Viola (esperto di gamification).
Elena Panzera
Hr director area South Emea di Sas
Elena Panzera è responsabile delle Risorse Umane di Sas per l’area South Emea, che comprende 20 paesi. Sas è una multinazionale che realizza sistemi software di business analytics e intelligenza artificiale per le imprese. Una linea di offerta comprende anche sistemi di people Analytics. Sas ha oltre 15.000 dipendenti (330 in Italia) nel mondo e 57 sedi.
L’intelligenza artificiale e la gamification le avete in casa…
Un po’ per dna aziendale, un po’ per esigenze gestionali concrete, l’intelligenza artificiale e il concetto di People analytics sono entrati prepotentemente nel mio lavoro e nel settore HR di Sas. Siamo stati favoriti dall’avere i software in casa ma il percorso di integrazione tra intelligenza artificiale e il modo tradizionale di fare HR non è stato banale, sia per questioni culturali dei manager e delle persone che lavorano nelle risorse umane, sia per una questione di competenze che mancano, a cui ovviare con processi di reskilling.
Pensando al recruiting, questi sistemi avanzati sono adatti a tutte le tipologie di imprese?
Assolutamente sì. Quando parliamo di intelligenza artificiale e applicazione degli analytics all’HR, non ho mai avuto paura e mai ne avrò nè della riduzione del lavoro che l’uomo deve fare nè dell’automatizzazione della funzione HR. È un rischio che non corriamo, proprio perchè l’integrazione con l’intelligenza artificiale arricchisce, cambia e fa crescere l’attenzione della persona che deve fare funzionare questi sistemi.
I timori ci sono…
Faccio sempre questo esempio: quanti di noi HR, ricevendo circa 10 mila curriculum l’anno, li guardano, li leggono e li selezionano con attenzione? A chi dice che far filtrare i cv da una macchina non sia etico, io rispondo che è più etico perché si ha la sicurezza che tutti i cv siano stati letti, selezionati e vagliati con la stessa attenzione e con gli stessi parametri. Il punto è questo: questi sistemi ci supportano nel fare con maggiore efficienza il nostro lavoro. Tornando al discorso precedente: sono convinta che siano sistemi adatti a tutte le imprese ma sono altrettanto convinta che sia impossibile automatizzare tutto il processo di recruiting. Questo sì che mi farebbe paura.
Come siete organizzati in Sas?
Utilizziamo un sistema di screening dei cv fatto con applicazioni di machine learning, in grado di attribuire un ranking alle candidature in base alla posizione aperta; gli algoritmi mettono in ordine di preferenza i cv selezionati. E utilizziamo anche un sistema in grado di prevedere la prestazione del candidato a uno o due anni, utilizzando come parametri le prestazioni di persone con caratteristiche simili che sono già in azienda da qualche anno. Queste tecnologie ci aiutano nelle scelte: se cerco un commerciale per determinati prodotti o paesi, cerco quali sono le caratteristiche dei nostri top performer e indirizzo la scelta verso persone con profili simili. Tutto avviene grazie a sistemi di intelligenza artificiale, nei colloqui individuali abbiamo già un quadro chiaro. Possiamo, con buona probabilità, conoscere in anticipo le performance di un candidato o la probabilità che ha di restare in azienda, con conseguente riduzione dei costi di turnover.
L’essere umano, il recruiter in questo caso, che fine ha fatto?
Il recruiter non sparisce, è lui che prende le decisioni. Ma ha davanti un quadro analitico completo in grado di supportarlo nell’orientare le domande nell’intervista e in tutto il processo di selezione.
Quali sono i risultati che avete avuto in Sas?
Abbiamo risultati molto positivi. Mostrare i benefici ottenuti dall’adozione di sistemi di intelligenza artificiale è un modo per vincere la diffidenza che ancora c’è. Il mio suggerimento è questo: partire con progetti piccoli, per gruppi o posizioni selezionate. Confrontare i risultati ottenuti con i quelli avuti dalla gestione tradizionale HR e portarli alla valutazione della direzione aziendale. I dati vanno fatti conoscere anche al team HR, perchè anche al nostro interno ci sono resistenze. La strada è quella dell’integrazione uomo-macchina, non della sostituzione.
I suoi colleghi direttori del personale sono pronti a passare all’intelligenza artificiale?
Nella pratica prevale ancora il metodo classico ma c’è una fortissima consapevolezza che questa rivoluzione sta bussando alla porta e tutti si stanno attrezzando. Siamo un po’ tutti nell’attesa che qualcuno faccia e indichi la via…
Voi siete un “pilota” in questo campo…
Ci stiamo provando, con decisione. Inutile negare che le grandi multinazionali sono un passo avanti, soprattutto nell’ambito del recruiting.
Usate anche sistemi di gamification?
Sì, soprattutto per attività di People engagement. Nel costruire il sistema di People analytics abbiamo fatto una analisi predittiva del turnover e ci siamo resi conto che ci mancava una chiave di lettura fondamentale: quanto la singola persona fosse ingaggiata sul lavoro. L’engagement è un indicatore predittivo del turnover, difficilmente misurabile con sistemi classici di gestione del personale, ma conoscere il livello di engagement è estremamente utile per il nostro lavoro. Siamo riusciti a misurarlo attraverso l’adozione di piattaforme di gamification, in grado di coinvolgere le persone con modalità di interazione diverse da quelle tradizionali. Abbiamo coinvolto le persone sui valori dell’impresa nell’ambito del processo di rebranding. Lo facciamo anche sul rewarding, con una piattaforma peer to peer di gamification, in cui ci si può rivolgere direttamente a un collega con modalità “leggere”… Sono sistemi validi soprattutto tra persone che non stanno quotidianamente nello stesso ufficio, che producono dati che analizziamo costantemente in ottica di engagement index score che confrontiamo con gli altri kpi aziendali. Questi strumenti generano anche un miglioramento della partecipazione e del clima sul lavoro perché tutti si sentono riconosciuti prima come persone e poi come professionisti.
Linda Serra
CEO di Work Wide Women
Linda Serra è CEO e co-founder di Work Wide Women. Si occupa di strategia e di comunicazione digitale ed è una delle prime partecipanti al movimento Italiano Girl Geek Dinners in Italia.
Come nasce Diversity@Work?
Perchè un gioco per promuovere l’inclusione?
Diversity @ Work è un progetto innovativo nato da mesi e mesi di osservazioni del mercato, da colloqui con HR e Diversity Manager e da un susseguirsi di domande. Il punto di partenza è stata la constatazione che le attività di formazione sulla diversity sono viste come qualcosa di superfluo, estremamente noioso e purtroppo spesso inutile. Il videogame che Work Wide Women ha progettato è un’esperienza innovativa che cala il giocatore in contesti reali, per riflettere sulle reazioni a situazioni in cui ciascuno di noi può ritrovarsi e aiuta a dimostrare come un’azione, spesso guidata da automatismi o da stereotipi, possa modificare le sorti della nostra produttività.
Che sensibilità avete trovato rispetto al tema diversity?
La strada è ancora lunga ma il trend secondo me è positivo: le aziende stanno prendendo consapevolezza del fatto che che una popolazione variegata performa il 15% in più delle altre e, parallelamente, le imprese che hanno un sistema di welfare inclusivo hanno performance migliori nella talent attraction and retention pari al 35%. In Italia, nel 2018, il 73% delle aziende di grandi dimensioni (secondo un sondaggio ISTUD) ha già offerto ai propri dipendenti una formazione manageriale volta alla sensibilizzazione sulle tematiche Diversity & Inclusion: è evidente che l’attenzione al tema si sta facendo sempre più strada.
I manager italiani sono pronti alla gamification?
Siamo un popolo di creativi e di inventori: certo che siamo pronti per la gamification! Sempre più spesso le aziende scelgono di utilizzare i videogiochi per le proprie strategie: che si parli di HR, di formazione, di valutazione delle performances o di task progettuali veri e propri, quello del gaming è un trend sempre più in crescita, dopo gli Stati Uniti, anche in Europa.
Quali vantaggi se ne traggono?
Il gioco è di per sé una dimensione che favorisce l’ingaggio e la messa in discussione. Quando giochiamo, infatti, tendiamo ad avere comportamenti più spontanei e attiviamo aree del cervello che stimolano l’apprendimento, per questo abbiamo deciso di sfruttare queste dinamiche per affiancare le aziende nella diffusione dei valori della Diversity & Inclusion. Inoltre con il videogame si può raggiungere un numero elevato di persone, anche dislocate su diversi territori.
Perché un direttore del personale dovrebbe utilizzare strumenti di Intelligenza Artificiale o gamification?
Il videogame è uno strumento utile in molti campi, dal recruiting alla formazione, in questo specifico caso aiuta l’azienda a lanciare il messaggio secondo cui le differenze sono elementi che arricchiscono la nostra persona, il nostro team e l’ambiente di lavoro. Giocando con le diversità si può capire quanto sia a volte più facile e costruttivo scegliere un atteggiamento inclusivo, anziché uno di chiusura. ll gaming applicato all’education pone il discente al centro del contenuto educativo e, conseguentemente, lo mette nella condizione di contribuire allo sviluppo del gioco modificandolo con i propri comportamenti. Questo fa sì che il processo di apprendimento diventi stimolante e molto più attraente, nonché più veloce. Se la persona a cui è rivolto il messaggio contribuisce alla costruzione del racconto modificandolo, apprende in modo attivo e mette in campo dei processi di riflessione che non sono sempre contestuali alla dimensione del gioco ma a cui spesso viene dato seguito traslando alla dimensione reale.
Con che tipo di imprese vi rapportate per l’uso di Diversity@Work?
Le aziende che hanno dimostrato interesse, sia a livello nazionale che internazionale (Diversity @ Work è stato presentato a Parigi durante l’ultima edizione di VivaTech), sono molto diverse fra loro, il che ci dimostra che questo tipo di sensibilità è trasversale. Quelle che lo stanno adottando sono grandi imprese con una vasta popolazione aziendale e sicuramente puntano sull’innovazione e sulla competitività nel mercato dal punto di vista del benessere dei dipendenti e dell’employer branding.
Che accoglienza ha avuto il gioco? Che riscontri avete già avuto?
L’accoglienza è stata ottima: Diversity @ Work è già stato richiesto da varie aziende e ha ricevuto finora due importanti riconoscimenti: il premio MIA – Miss In Action del Gruppo BNP Paribas e Digital Magics e il Premio Enel’s Women in Tech nel settore Open Innovation.
È giusto chiamarlo gioco?
Certo, è un gioco di carte. ll principio da cui siamo partite nella progettazione è proprio quello di portare le persone a giocare con le diversità in modo da sgonfiare la tensione che spesso si respira quando si affrontano questi argomenti. Giocare per mettersi alla prova in un ambiente protetto dai preconcetti e dalle aspettative che su di noi hanno gli altri. Per questo il gioco è somministrato in modalità anonima. Il termine corretto è “Applied game” ma di fatto è un videogioco, il che non sminuisce minimamente la portata dei valori intrinseci, anzi, lo colloca in una dimensione più umana e vicina alle persone che in questo modo non si sentono giudicate o sotto pressione.
Fabio Viola
Esperto di gamification
Fabio Viola ha ricoperto diversi incarichi in aziende internazionali come Electronic Arts Mobile e Vivendi Games dove ha avuto la possibilità di lavorare a produzioni iconiche: Fifa, The Sims, Harry Potter. Autore di libri, tra cui “L’Arte del Coinvolgimento” (Hoepli 2017), è coordinatore area gaming della Scuola Internazionale di Comics di Firenze e docente di engagement design in diverse università.
I manager italiani sono pronti alla gamification?
Dall’Enterprise Gamification Report (www.enterprisegamification.it) che coordinai per Wingage nel 2017 emerse che il 30% dei manager italiani intervistati aveva già sperimentato la gamification in ambito interno. Nell’ultimo biennio il dato quantitativo è ulteriormente migliorato, con numerose nuove progettualità lanciate da medio-grande aziende. Resta lecita la domanda sulla maturità delle esperienze intraprese.
Quali vantaggi ne può trarre un’impresa?
In ambiti quali la formazione, motivazione e performance della forza vendita, recruiting e gestione delle risorse umane – per i nati dopo il 1990 – un approccio “Engagement centered design” segna il passaggio da un ambiente lavorativo del “dover fare” a uno del “voler fare”. Un approccio che diversifica la propria azienda dalle altre ma soprattutto si avvicina ai modi di ragionare, vivere e lavorare delle generazioni Y e Z, consentendo un aumento significativo dei tassi di coinvolgimento che, come ci dicono numerose ricerche, sono prodromici ad una migliore produttività.
Quali sono i principali ostacoli all’introduzione di strumenti innovativi per la gestione e il coinvolgimento del personale?
È fondamentale la fase di preparazione del terreno. Ovvero, creare un lessico comune in azienda, facendo comprendere ai vari livelli gerarchici l’importanza del coinvolgimento come metrica principale, tanto in ambito enterprise quanto consumer. Un ruolo fondamentale lo deve giocare un game designer, in grado di offrire formazione continua e facilitare il dialogo tra i dipartimenti. Il mancato allineamento dei reparti IT, comunicazione, HR e prodotto genera spesso problematiche in fase di lancio di progetti di forte innovazione, per loro natura trans dipartimentali. Infine, per esperienza personale, i progetti che hanno avuto largo successo sono quelli dove la tecnologia si è adattata all’idea innovativa e mai il contrario, un monito verso soluzioni e reparti IT flessibili e interni.
Perché un direttore del personale dovrebbe utilizzare strumenti di gamification?
Nel report già citato è emerso che il 69% degli intervistati ha trovato “utile” la gamification e il 17% “fondamentale” ai fini del coinvolgimento del personale nei progetti enterprise. Parlare lo stesso linguaggio di una porzione sempre maggiore di dipendenti cresciuti con videogiochi e serie tv è fondamentale per stimolare la loro creatività e proattività ed in questo la gamification non fa altro che mutuare 40 anni di tecniche e meccaniche che portano mensilmente oltre un miliardo di individui nel mondo a investire ore, abilità e soldi in quegli universi paralleli.
A cosa bisogna stare attenti per realizzare un progetto di gamification in grado di produrre risultati positivi?
Il successo o l’insuccesso dipende largamente dalla qualità progettuale e dal metodo strutturato che si è dati per implementare il progetto. È fondamentale portare a bordo nel team di progetto un game designer, o gamification designer o engagement designer che dir si voglia, perché è l’unico modo per superare il paradigma PBLI (punti, badge, leaderboard, incentivi) che domina la scena della gamification. Nei miei corsi universitari utilizzo un gamification deck contenente oltre 100 meccaniche e queste rappresentano a loro volta solo la punta dell’iceberg delle tecniche utilizzabili per coinvolgere, fidelizzare, motivare il dipendente. Ogni carta è agganciata ad alcuni obiettivi e, soprattutto, a un target specifico. Il coinvolgimento è direttamente collegato alle istanze individuali e non può essere mai un processo top down.
Può raccontarci alcune best practice di gamification?
Rimanendo in Italia, numerosi progetti start up hanno debuttato in ambito recruiting. Dal pionieristico Ace Manager di BNP Paribas, ormai giunto alla decima edizione, al più recente Inner Island di MSC Crociere, sono numerose le grandi aziende che stanno cercando nuove modalità di scoprire e selezionare i talenti del futuro, superando la logica del tradizionale cv a favore di ambienti digitali in cui una serie di sfide aiutano a filtrare le competenze dei candidati e, contemporaneamente, ad avvicinare nuovi pubblici al marchio. Start up come LaborPlay, focalizzata sul game recruiting, o Employerland hanno dimostrato negli anni il potenziale di questa rivoluzione. Il trend nel 2020 è quello della gamification per la forza vendite: si stima che il 71% delle compagnie che hanno introdotto questi tool abbiano aumentato tra 11% e 50% le vendite.
Sono strumenti solo per grandi imprese innovative o anche per altre tipologie?
Il design del coinvolgimento è uno strumento estremamente trasversale che tocca tanto piccole quanto grandi realtà e soprattutto ambiti merceologici variegati. Nella mia carriera ho avuto modo di lavorare in ambito bancario, assicurativo, telecomunicazione, igiene intima, fitness sempre con fortunati risultati.
È giusto chiamarli giochi?
Citando Benjamin Franklin: “dimmi e io dimentico, mostrami e io imparo, coinvolgimi e io ricordo”. I videogiochi sono straordinarie emotional e learning machine e ci mostrano la strada per attuare il passaggio dallo storytelling allo “storydoing”. I giocatori sono gli unici che parlano in prima persona – “ho salvato la principessa”, “ho ucciso il mostro” – creando quel passaggio dalla terza alla prima persona fondamentale per creare co-protagonismo.