Il bilancio negativo del placement universitario
La nascita dei job center negli atenei era uno degli aspetti principali della legge Biagi, approvata nel 2003: non solo per il collocamento, ma come strumento per ripensare l’offerta formativa delle Università. Un bilancio a sedici anni di distanza dall’approvazione della riforma del mercato del lavoro: molte ombre, poche luci
Anno 2003, viene approvata la Legge Biagi, che porta il nome del giuslavorista assassinato dalle Brigate Rosse. Una legge di cui si è molto discusso su tanti aspetti, quello che probabilmente è rimasto più in ombra è l’obiettivo di facilitare l’incrocio di domanda e offerta di lavoro. Con un ruolo importante delle Università. Non doveva essere solo una banca dati ben funzionante, ma doveva essere anche uno strumento per orientare la didattica degli atenei al mercato del lavoro per ridurre il gap di competenze.
Che ne è di quella previsione? Sedici anni dopo, Adapt (Associazione per gli studi internazionali e comparati sul diritto del lavoro e sulle relazioni industriali, fondata proprio da Marco Biagi) ha fatto un bilancio. Non molto lusinghiero. Michele Tiraboschi, giuslavorista e allievo di Marco Biagi, parla di ritardi culturali e pochi passi avanti fatti. Con posizioni inspiegabili, come quelle di alcuni enti pubblici, che stanno limitando la circolazione dei cv dei laureati, pur a fronte di una previsione di legge che ne agevola la diffusione ed è alla base della previsione dell’apertura di uffici di placement universitari.
I dati
Dal bollettino dedicato alle audizioni dei rappresentanti di Adapt nell’indagine conoscitiva sul funzionamento dei servizi pubblici per l’impiego: delle 90 Università italiane mappate, nessuna rende immediatamente e liberamente accessibili i curriculum in forma completa, includendo nome dello studente e/o numero di cellulare o indirizzo email. “Vi sono poi 11 atenei che non riportano sul sito le modalità di accesso ai curriculum dei propri studenti – si legge in un articolo di Alessia Battaglia e Andrea Negri – richiedendo in alcuni casi contatti diretti con i responsabili degli uffici preposti, i quali o non sono rintracciabili, o richiedono l’invio di un modulo – compilato, timbrato e firmato – via fax, o richiedono addirittura una dichiarazione del rappresentante legale dell’azienda”.
Best practice
Il calcolo è che solo un laureato su 10 abbia trovato lavoro attraverso il placement universitario. Ma non è così dappertutto. Ci sono eccellenze e c’è un sistema in movimento che punta a far diventare sistema universitario e scolastico attori chiave per l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Al Politecnico di Milano, ad esempio, i laureati magistrali che hanno trovato il primo impiego tramite il Career Center sono il 30,4%. Generalmente il tasso di occupazione dei laureati, a poco tempo di distanza dal conseguimento del titolo, è molto più elevato di quello di chi ha un percorso formativo inferiore.
Almalaurea
Ad oggi il principale strumento di placement universitario è Almalaurea, Consorzio Interuniversitario a cui aderiscono 75 Atenei e che rappresenta il 91% dei laureati italiani. Nelle sue banche dati ci sono poco meno di 3 milioni di cv: le imprese possono abbonarsi e scaricare i curricula dei profili cercati.
Non solo sportello
Senza sottovalutare l’importanza pratica dei career center universitari e la rilevanza del placement, Michele Tiraboschi precisa che l’obiettivo di fondo di questa parte della legge Biagi non era la nascita di molti sportelli per il lavoro. “Il cuore della riforma non era infatti la nascita di sportelli di collocamento dedicati agli studenti da utilizzare una volta portato a termine il percorso universitario – scrive il coordinatore scientifico di Adapt – Piuttosto, l’idea era quella di introdurre una leva strategica per ripensare l’intera offerta formativa degli atenei responsabilizzando altresì i singoli docenti nell’orientamento dei giovani e nella valorizzazione dei loro talenti attraverso forme innovative di didattica, come il metodo dell’alternanza e l’apprendistato universitario. Sullo sfondo l’idea di una formazione non più nozionistica e anche l’obiettivo di contribuire a superare il disallineamento tra le competenze richieste dalle imprese e quanto insegnato nelle aule delle nostre università”.