50 anni di Statuto dei Lavoratori: ha aiutato il sistema Italia

Mezzo secolo fa l’approvazione della legge 300, un testo fondamentale per il diritto del lavoro e “per l’evoluzione manageriale delle imprese”. È ancora attuale? Quali sono le revisioni necessarie? Ne abbiamo parlato con il professor Franco Scarpelli: “L’attuale disciplina dei licenziamenti illegittimi, dopo la sentenza della Consulta, è equilibrata”

Franco-Scarpelli

Lo Statuto dei Lavoratori, legge fondamentale del diritto del lavoro italiano, ha appena compiuto 50 anni. È stata approvata il 20 maggio del 1970, in uno scenario economico e sociale completamente diverso. I rapporti di forza di allora, si direbbe con un gergo che suona antico, erano molto diversi da quelli di oggi. Eppure lo Statuto, che negli anni è stato modificato ma che conserva il suo impianto, resta ancora attuale. Quali sono i suoi punti forti? Quali i suoi limiti nel regolare un lavoro che è completamente cambiato? Lo abbiamo chiesto a Franco Scarpelli, docente di diritto del lavoro all’Università degli Studi di Milano-Bicocca e socio fondatore del network Legalilavoro.

Professore, iniziamo da una sua valutazione sullo Statuto a 50 anni di distanza dalla sua approvazione.

Si tratta di una legge estremamente avanzata per l’epoca in cui è stata approvata. Lo Statuto ha  contribuito in maniera fondamentale alla maturazione non solo del sistema giuridico ma anche del sistema imprenditoriale e delle relazioni di lavoro, individuali e collettive, del nostro Paese. Quella legge, che allora fu osteggiata da destra, dalla sinistra più radicale e da una parte importante del mondo imprenditoriale, ha stabilito dei principi di civiltà base nel mondo del lavoro e, come sosteneva il collega giuslavorista Mario Napoli, ha contribuito alla maturazione della gestione manageriale dell’impresa. Il dover rispettare regole che rendono più civile il lavoro fa bene al management e all’impresa. Questo discorso è valido anche sul piano delle relazioni collettive: lo Statuto ha contribuito alla creazione di un modello di relazioni industriali che, pur con dei limiti, è un unicum positivo nel mondo e ci ha consentito di superare momenti di grande difficoltà senza tensioni sociali estreme.

Va tutto bene?

No, per carità. I problemi ci sono e sono tanti ma va anche riconosciuto che, guardando solo agli ultimi 15 anni, le gravi crisi che abbiamo attraversato sono state gestite con un sistema di relazioni industriali che ha evitato l’esplosione di forti tensioni sociali.

Quali sono secondo lei i principali limiti dello Statuto dei Lavoratori?

Il limite più importante è che la legge non riesce a coprire tutti gli ambiti e le piccole imprese. Sono realtà dove spesso la relazione personale tra datore di lavoro e dipendente supplisce alla mancanza di effettività delle regole giuridiche, ma non c’è stato, tranne per qualche eccezione, quel salto di qualità nelle relazioni, nella gestione manageriale e nei diritti che si è avuto nella grande impresa sull’onda dello Statuto dei Lavoratori. L’altro grande limite riguarda l’incapacità di quella legge di fare i conti con la nuova articolazione delle attività produttive per filiere: un limite oggettivo, visto che lo Statuto era stato pensato per un sistema con al centro la grande impresa fordista come soggetto unico. Questi limiti li abbiamo cominciati a vedere con il grande fenomeno delle esternalizzazioni a partire dagli anni ‘80, nel privato e poi nel mondo pubblico. Il legislatore è intervenuto con diverse discipline, ma non hanno la stessa organicità dello Statuto…

In che senso?

Lo Statuto, a differenza di altre leggi, ha alla sua base un progetto organico di regolazione del fenomeno economico-imprenditoriale e delle relazioni individuali e collettive. È una legge progetto, non un episodio. Ciò non toglie che all’interno di questo progetto ci siano elementi che col tempo hanno mostrato la corda, anche per responsabilità del sistema di relazioni sindacali, che ha dei meriti ma anche limiti e ritardi.

A cosa si riferisce?

Penso alla norma sulle mansioni, cambiata nel 2015 con il Jobs Act. Era una previsione che per essere applicata bene aveva bisogno di una contrattazione collettiva all’altezza e dinamica, che non sempre c’è stata. In alcuni settori la classificazione delle mansioni è ancora quella degli anni ‘70… Non sono un fan delle modifiche fatte negli ultimi anni, che spesso in nome della flessibilità nella singola impresa scaricano costi indiretti sul sistema economico e sociale nel suo complesso, ma non si può nemmeno restare fermi a un mondo che non c’è più.

L’articolo 18, la norma più discussa e conosciuta dello Statuto, ha ancora senso?

La norma come era stata immaginato allora non c’è più, dopo i cambiamenti introdotti dalla Fornero nel 2012 e dal Jobs Act nel 2015. Una cosa che non notano in tanti è che l’articolo 18, nella logica di chi ha redatto lo Statuto, è collocato nel titolo II, in cui si parla della libertà sindacale, dunque con lo scopo di proteggere la libertà del lavoratore – almeno nelle aziende con più di 15 dipendenti – che sapeva di poter contare su uno strumento di tutela in caso di licenziamento illegittimo. La reintegra, che esiste ancora per determinate fattispecie di licenziamenti, è stata sostituita con una serie di sanzioni economiche con diverse gradualità. Il principale problema di oggi è che si tratta di una disciplina estremamente complicata… che per essere maneggiata richiede competenze giuridiche molto specifiche… Oltre questo aspetto critico, e pur avendo sempre difeso la reintegrazione come regola di civiltà, devo dire che l’assetto attuale della disciplina sanzionatoria dei licenziamenti, dopo la sentenza 194\2018 della Consulta, è tutto sommato equilibrato. A questo proposito, e tornando ai limiti dello Statuto, ritengo che anche su questo terreno abbia sempre meno senso la distinzione di applicazione delle regole tra piccole e grandi imprese basata sull’unico criterio del numero di dipendenti.

Lo Statuto ha ancora la funzione di legge di sistema che storicamente ha avuto, anche in riferimento all’articolo 8 che vieta le indagini sul lavoratore nell’epoca degli algoritmi, della privacy zero e dei lavoretti?

Sì e direi che nessun imprenditore mediamente preparato direbbe il contrario. Magari i suoi padri possono aver vissuto quella legge come una imposizione ‘comunista’ (anche se fu voluta da socialisti e democristiani, con l’astensione del Pci), ma oggi tutti riconoscono che è una legge che ha introdotto regole di civiltà. Poi alcune di esse sono sicuramente da cambiare: l’articolo 8 fu la prima norma sulla privacy, l’articolo 4 fu la prima regola sul tema dei controlli tecnologici, sul rischio del ‘grande fratello’… sono temi che subiscono molto il passare del tempo, le regole vengono adattate all’oggi con discipline più moderne, ma i principi che stabiliscono sono attualissimi.

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